Validità delle clausole claims made

La validità delle clausole claims made

Nell’ambito dei contratti assicurativi ed, in particolare, nei contratti di assicurazione per la responsabilità civile, la validità delle clausole cd. “claims made” (o “a richiesta fatta”) ha occupato il dibattito giurisprudenziale degli ultimi anni, approdando a ben due pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, rispettivamente, la sentenza n. 9140 del 2016 e la sentenza n. 22437 del 2018.

Le clausole claims made costituiscono una particolare tipologia di clausole inserite sempre più di frequente nell’ambito dei contratti assicurativi della responsabilità civile, atte a modificare il funzionamento della relativa copertura e, dunque, l’operatività della polizza stipulata. In particolare, si tratta di pattuizioni che specificano il rischio garantito dal contratto di assicurazione, vincolando la copertura assicurativa ai sinistri denunciati nel periodo di vigenza della polizza.

Pertanto, in deroga al normale modello di assicurazione delineato dall’art. 1917 c.c., l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi debba pagare a un terzo in conseguenza non delle condotte generatrici di domande risarcitorie insorte durante il periodo di vigenza del contratto (modello cd. “loss occurence”), ma in relazione alle richieste pervenute all’assicurazione nel medesimo arco temporale.

Nella prassi si usa distinguere, pur senza pretese di esaustività, considerato il variegato scenario applicativo, tra clausole cd. “pure” e clausole “impure” o miste.

Le prime si caratterizzano per subordinare l’obbligazione risarcitoria al solo fatto che la relativa richiesta sia pervenuta nel periodo di vigenza della polizza, indipendentemente dal momento in cui è stata posta in essere la condotta dannosa, mentre le seconde ancorano il risarcimento al fatto che tanto la richiesta quanto il danno intervengano nel periodo di efficacia del contratto, talvolta con possibile retrodatazione della garanzia a condotte poste in essere in un arco temporale precedente, individuato dal contratto stesso.

A queste due ipotesi si affiancano poi variegate declinazioni pratiche, quali l’estensione della copertura assicurativa ad un arco temporale successivo alla scadenza (cd. “sunset clause” o clausola di ultrattività) o la possibilità per l’assicurato di comunicare all’assicurazione, ai fini dell’operatività della polizza, le circostanze conosciute in corso di contratto dalle quali potrebbe, in futuro, originare la richiesta (cd. “deeming clause”).

Il primo problema sorto in relazione alla validità delle clausole claims made attiene alla possibilità per le parti di assicurare circostanze diverse rispetto al sinistro come comunemente inteso, ossia la condotta dannosa da cui origina l’obbligazione risarcitoria.

Orbene, confutando la tesi di quanti ritengono che le parti non possano assicurare rischi diversi rispetto alla commissione di un illecito dell’assicurato, le Sezioni Unite, in entrambe le pronunce richiamate, accolgono una nozione di sinistro assicurabile a concretizzazione progressiva, che non si esaurisce nella sola condotta materiale, bensì è completato dalla manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento. Sicché, argomenta la giurisprudenza, la concretizzazione del rischio astratto assicurato, specie per i danni lungolatenti, non sempre può identificarsi con la condotta dannosa, ma ricorrono ipotesi in cui la minaccia dell’impoverimento patrimoniale del danneggiato si manifesta in un momento successivo, nella specie, quello della richiesta risarcitoria inoltrata dal danneggiato.

A ciò consegue altresì la validità delle clausole che assicurano il rischio pregresso, nella misura in cui tale rischio, al momento della stipula della polizza, sia ignoto all’assicurato, sicché resti impregiudicata la relativa alea. Invero, dicono le Sezioni Unite, le clausole claims made con garanzia pregressa sono valide perché afferiscono ad un solo elemento del rischio garantito, quello della condotta colposa già avveratasi, restando aleatoria la verificazione dell’altro elemento, quello della minaccia di impoverimento del patrimonio dell’assicurato a seguito della richiesta inoltrata dal danneggiato.

La concezione di rischio a verificazione progressiva conduce, poi, la giurisprudenza a risolvere positivamente un secondo quesito inerente la validità delle clausole claims made. In particolare, la Suprema Corte afferma, in entrambe le pronunce, la natura non vessatoria di tali clausole, con conseguente inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 1341 c.c., affermando che le stesse devono ritenersi limitative non della responsabilità dell’assicuratore — e solo in tale ipotesi sarebbero vessatorie — ma dell’oggetto del contratto, specificando il rischio garantito, declinato nella sua duplice componente temporale di insorgenza della condotta dannosa e della richiesta del danneggiato.

Così affermata la non aprioristica invalidità delle clausole claims made, le Sezioni Unite concentrano il relativo giudizio di ammissibilità sul vaglio di meritevolezza del contratto in cui tali clausole vengono inserite. A tal proposito, le due pronunce adottano prospettive differenti. In un primo momento, le Sezioni Unite, nella pronuncia del 2016, inquadravano il contratto assicurativo contenente le clausole “a richiesta fatta” in un contratto atipico, derogatorio rispetto al modello di cui all’art. 1917 c.c., imponendo al giudice di merito il giudizio di meritevolezza richiesto per i contratti non appartenenti ai tipi previsti dalla legge, i quali devono perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Successivamente, nella recente pronuncia del 2018, la Suprema Corte ha superato il precedente orientamento, inquadrando il contratto in questione in una deroga convenzionale alla disciplina del modello di assicurazione della responsabilità civile, tuttavia di per sé non idonea a collocare il contratto al di fuori dello schema tipico di cui all’art. 1917 c.c. Di talché, a parere della Corte, il giudizio di meritevolezza deve comunque essere svolto dal giudice, ma in una prospettiva differente rispetto a prima, alla luce della causa concreta del contratto tipico.

Occorre, pertanto, svolgere un’indagine a più ampio spettro, che tenga conto non solo del momento genetico del contratto, ma che si estenda anche al suo contenuto e alla fase attuativa, con la conseguenza che la tutela invocabile dal contraente può investire tutti i profili implicati. Così, esemplificando, essa potrà coinvolgere la responsabilità risarcitoria precontrattuale, anche in caso di conclusione del contratto a conseguenze svantaggiose, la nullità, anche parziale, del contratto, per carenza della causa in concreto, nonché la conformazione in caso di clausola abusiva.

Risalta, in particolare, nella pronuncia della Corte, il potere di indagine conferito al giudice di merito, da esercitarsi alla luce della causa concreta, che consente allo stesso anche di intervenire sul contenuto del contratto, laddove emerga uno squilibrio giuridico tale da rendere il contratto inidoneo rispetto allo scopo in concreto perseguito dalle parti. Ciò tenendo anche in considerazione interessi superiori di ordine pubblico, quali la tutela dei terzi, connaturati alla funzione sociale del contratto si assicurazione.

Il comodato della casa familiare

Il comodato della casa familiare

Accade frequentemente che l’immobile utilizzato dalla coppia come abitazione familiare sia stato concesso in comodato gratuito dai genitori di uno dei due partner.

Il comodato è un contratto tipico, essenzialmente gratuito, previsto dal Legislatore agli artt. 1803 e seguenti del codice civile, con cui “una parte (il comodante) consegna ad un’altra (il comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”.

Dottrina e giurisprudenza, sulla base delle norme codicistiche che disciplinano la restituzione del bene concesso in comodato, hanno individuato tre tipologie di comodato:

1. il comodato cd. “a termine”, ovvero quella fattispecie in cui, ai sensi dell’art. 1809, comma 1, c.c., la restituzione del bene da parte del comodatario deve avvenire alla scadenza del contratto;

2. il comodato che, sebbene non sia stato previsto un termine determinato, è stato concesso per un fine/uso determinato, espressamente pattuito o desumibile dal contratto stesso (ad esempio per le esigenze della famiglia). In tal caso la restituzione del bene deve avvenire al termine dell’uso convenuto;

3. il comodato cd. “precario”, ovvero quella fattispecie in cui non è stato pattuito alcun termine di durata né è possibile desumere dal contratto l’uso convenuto. In tal caso, ai sensi dell’art. 1810 c.c., la restituzione deve avvenire non appena il comodante ne faccia richiesta.Va, comunque, ricordato che, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c., anche prima della scadenza del termine ovvero prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa sulla base dell’uso convenuto, il comodante potrà richiedere la restituzione del bene, qualora allo stesso sopraggiunga un bisogno “urgente ed impreveduto.

In tutte le ipotesi, quindi, in cui un immobile venga, senza previsione di un termine, concesso in comodato ad un figlio affinché vi abiti con il proprio nucleo familiare, per determinare il momento in cui il proprietario potrà pretendere la restituzione del bene, occorrerà valutare se dal contratto sia desumibile o meno l’intento del comodante di concedere l’immobile al comodatario affinché soddisfi le proprie esigenze familiari, adibendolo a propria abitazione familiare.
In tal caso, invero, la restituzione potrà avvenire solo quando siano cessate le esigenze familiari del comodatario.

L’ipotesi, certamente, più problematica è rappresentata da quelle fattispecie di comodato cd. “precario”, in cui, oltre a non essere stabilito alcun termine, non è stato neppure convenuto alcun uso preciso.
In tema di comodato, la giurisprudenza è stata, invero, chiamata ad esprimersi sulla possibilità per il proprietario (solitamente il genitore di uno dei partner) di richiedere la restituzione del bene, allo sciogliersi della relazione sentimentale, quando la propria abitazione venga assegnata, in sede di separazione o divorzio, non al proprio parente ma all’altro coniuge.

I Giudici hanno, in questi casi, ritenuto che, laddove il comodatario riesca a provare che il contratto non era precario ma concesso per le esigenze della famiglia, il vincolo sul bene non possa risolversi a richiesta del comodante, ma solo al venir meno delle esigenze familiari (così ex multis Cass. Civ., Sez. Un., sentenza n. 20448/2014).

Infatti come ribadito da Cass. Civ., 2/02/2017, sentenza n. 2771, nel caso manchi espressamente un termine di durata, la scadenza contrattuale può evincersi per relationem dalla destinazione a casa familiare, con la conseguenza che il comodante, al di fuori di un bisogno imprevisto ed urgente, non possa richiedere la restituzione del bene, finché perduri la destinazione del bene a casa familiare.

E’, però, necessario che sussista in capo al soggetto che pretende di abitare l’immobile, dopo lo scioglimento del legame sentimentale, un provvedimento giudiziale che preveda espressamente l’assegnazione dell’immobile allo stesso.