pensione reversibilità al coniuge

Pensione di reversibilità al coniuge separato/divorziato e ripartizione col nuovo coniuge

In caso di decesso di un coniuge, l’altro coniuge (o l’unito civilmente) ha diritto all’erogazione della pensione di reversibilità, ovvero al riconoscimento di una quota percentuale della pensione già liquidata o che sarebbe spettata al deceduto.

La pensione di reversibilità spetta anche al coniuge separato ed al coniuge divorziato che non sia passato a nuove nozze, ma solo a condizione che a quest’ultimo sia stato riconosciuto in sede di divorzio un assegno divorzile e che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla data della sentenza che ha pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Ma cosa succede se il coniuge deceduto, dopo il divorzio, aveva contratto un nuovo matrimonio, lasciando oltre al coniuge divorziato un nuovo coniuge?

L’art. 9 della Legge sul divorzio (l. 898/70) prevede espressamente che in questo caso una quota della pensione di reversibilità spettante al nuovo coniuge venga attribuita dal Tribunale al coniuge divorziato che sia in possesso dei requisiti sopra esposti.

E’, quindi, necessario che il coniuge divorziato proponga ricorso al Tribunale competente per la determinazione della quota di sua spettanza.

Tale quota, secondo l’orientamento della giurisprudenza più recente, verrà determinata dal Giudice, secondo il suo prudente apprezzamento, ponderando il criterio principale della durata dei rispettivi matrimoni con quelli correttivi, eventualmente presenti, della durata della convivenza prematrimoniale, delle condizioni economiche delle parti, dell’entità dell’assegno divorzile.
Va precisato che assume rilievo anche il periodo di convivenza prematrimoniale eventualmente instaurato con il nuovo coniuge in costanza di separazione dal precedente, laddove venga provata la stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale (così Cass. Civ., ord. 21997/2024; Cass. Civ., 8263/2020).

Novità in materia di mediazione civile

Il 30 giugno 2023 sono entrate in vigore le disposizioni del D. Lgs. 149/22 (cd. Riforma Cartabia) relative alla mediazione civile e commerciale.
La mediazione civile e commerciale è un procedimento di risoluzione alternativa delle controversie, introdotto in Italia con il D. Lgs. 28/2010, che si svolge presso un organismo accreditato dal Ministero dove un terzo imparziale (il Mediatore) aiuta le parti, assistite necessariamente dai rispettivi difensori, a trovare un accordo senza dover ricorrere all’Autorità Giudiziaria.

In alcune materie il tentativo di mediazione è obbligatorio ed è condizione necessaria per procedere poi con l’eventuale causa in Tribunale (ad esempio, in materia di contratti assicurativi e bancari, diritti reali, successioni, condominio, locazione e comodato ecc…).

La cd. Riforma Cartabia, che ha in parte ridefinito e modificato il procedimento di mediazione, ha esteso le materie per cui la mediazione è obbligatoria, ricomprendendoVi i contratti di associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura.

Tra le novità più significative della Riforma Cartabia, in materia di mediazione, vanno però evidenziate quelle di natura fiscale, che comportano importanti benefici economici per le parti che decidono di andare in Mediazione.

E’ stato infatti previsto che tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, mentre il verbale contenente l’accordo di conciliazione e’ esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 100.000,00 euro, altrimenti l’imposta e’ dovuta per la parte eccedente.
Quest’ultima previsione risulta economicamente molto conveniente per le parti soprattutto nei casi in cui in sede di accordo di mediazione vengono disposti trasferimenti immobiliari, ad esempio in materia di successione ereditaria, di accordo tra coniugi, ecc…

Inoltre, qualora venga raggiunto l’accordo, alle parti e’ riconosciuto un credito d’imposta commisurato all’indennita’ corrisposta all’Organismo di Mediazione, fino alla concorrenza di euro 600,00.
Nei casi di mediazione obbligatoria o demandata dal Giudice, è altresì riconosciuto alle parti un ulteriore credito di imposta commisurato al compenso corrisposto al proprio avvocato per l’assistenza nella procedura di mediazione, sempre fino alla concorrenza di euro 600,00.

L’impresa familiare e i diritti del coniuge

Per impresa familiare, disciplinata nel nostro ordinamento dagli artt. 230 bis e 230 ter del codice civile, può individuarsi quell’attività economica alla quale collaborano, in modo continuativo, il coniuge, il convivente, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, qualora non sia configurabile un diverso rapporto di lavoro.
Il familiare che presta il lavoro nell’impresa altrui ha diritto ad una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Infatti, in sede di riforma del diritto di famiglia risalente all’anno 1975, il nostro Legislatore ha inteso regolare il fenomeno, molto diffuso, del lavoro prestato a favore dell’attività di famiglia, che nel contesto della “famiglia patriarcale” scontava una presunzione di gratuità.

Sono stati così riconosciuti ai familiari, che prestano lavoro e collaborano nell’impresa di famiglia, una serie di diritti, sia sotto il profilo civilistico che dal punto di vista fiscale.

La sentenza della Corte d’Appello di Bologna, Sezione Lavoro, n. 250/2022, qui in commento, fa il punto sui diritti spettanti al coniuge che ha prestato la propria attività a favore dell’impresa individuale del marito, nel momento dello scioglimento dell’unione coniugale.

Il provvedimento in oggetto conferma infatti il diritto della moglie a veder riconosciuta, al momento della cessazione dell’impresa familiare (nel caso di specie per intervenuta separazione dei coniugi), la liquidazione della propria partecipazione all’impresa del marito, nel cui ambito la ricorrente aveva da sempre svolto attività lavorativa (tenuta della contabilità, fatturazione, ecc..), mai altrimenti retribuita.

In particolare, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Bologna, Sezione Lavoro, in riforma della sentenza di primo grado che nulla aveva riconosciuto alla moglie, stabilisce il diritto della ricorrente alla liquidazione della sua quota di partecipazione all’impresa, come individuata e quantificata dal consulente tecnico d’ufficio in sede di consulenza contabile, di cui il Tribunale, giudice del primo grado, del tutto immotivatamente non aveva tenuto conto.

Con ciò viene confermato il principio, da tempo chiarito dalla giurisprudenza, secondo cui il Giudice che “intenda discostarsi dal parere reso dal consulente tecnico, deve offrire chiara ed esaustiva motivazione del proprio diverso convincimento esplicitando i motivi per cui ritiene di non recepire le conclusioni dell’ausiliario (così ex multis Cass. Civ., Sez III, 3/12/2015, n. 24630)”.

Con la medesima sentenza, ed in accoglimento di un altro motivo di appello presentato dalla moglie, la Corte d’Appello di Bologna, Sezione Lavoro, ha altresì sancito, con riferimento ai profili fiscali dell’impresa familiare, che i debiti previdenziali e fiscali che gravano sulla posizione del familiare-collaboratore devono essere posti a carico dell’impresa.
Nel caso di specie, quindi, posto che era stata accertato che la moglie partecipasse all’impresa individuale del marito per una quota pari al 49%, la Corte d’Appello ha affermato che il 51% dei debiti fiscali e previdenziali gravanti sulla moglie dovessero essere rimborsati dal marito.

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Responsabilità da cosa in custodia del gestore di sala cinematografica

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza non definitiva n. 492/2021, ha accertato la responsabilità da cose in custodia (art. 2051 c.c.) del convenuto, gestore di una sala cinematografica, per i danni riportati dall’attrice, utente del cinema, caduta a causa di un gradino non visibile.

L’art. 2051 c.c., in materia di responsabilità civile per i danni causati da cose in custodia, individua un’ipotesi di responsabilità oggettiva (sulla responsabilità da cose in custodia, cfr. l’approfondimento “Il Comune e i danni derivanti dal cedimento della strada”).
Sull’attore, presunto danneggiato, incombe quindi la dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, ovvero la prova che il proprio danno sia derivato da un’anomalia del bene oggetto di custodia (cfr. Cass. Civ. Sez. VI, ord. 18236/2018; Cass. Civ. Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 25214, Cass. Civ. Sez. III, Ord. 25837/2017).
Il custode convenuto potrà invece liberarsi dalla responsabilità solamente nel caso in cui sia in grado di dimostrare il caso fortuito, restando in capo allo stesso ogni altra conseguenza dannosa derivante dalla cosa custodita.

L’esaustiva sentenza in commento fa il punto sull’onere della prova incombente sull’attore che agisce in giudizio ai sensi dell’art. 2051 c.c., per sentire dichiarare la responsabilità del custode.

In particolare, il Tribunale di Bologna, dopo aver precisato, richiamando l’orientamento espresso dalla Suprema Corte, che l’attrice è onerata dal provare il rapporto di custodia, il fatto storico generatore del danno ed il rapporto di causa tra il danno e la cosa oggetto di custodia, ha ritenuto che, nel caso di specie, dalla documentazione prodotta in causa e dalle dichiarazioni del testimone risultasse provata sia la pericolosità dei luoghi sia la dinamica della caduta dell’utente, riconducibile alla predetta pericolosità.

Il Giudice ha poi escluso che la condotta dell’attrice potesse configurare un’ipotesi di caso fortuito, idonea ad elidere la responsabilità del custode.
La sentenza in commento, infatti, attraverso un’approfondita ricostruzione giurisprudenziale e dottrinale, precisa quali siano i limiti per la sussistenza del caso fortuito, confermando che la condotta del danneggiato può assumere rilievo esimente solo quando sia “connotata dalla totale assenza delle cautele normalmente attese e prevedibili, in rapporto alle circostanze dei luoghi”, così da costituire un fatto dotato di esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

Pur considerando la condotta della danneggiata esente da censure sotto il profilo della responsabilità del custode, il Tribunale di Bologna ha però riconosciuto in capo all’attrice una percentuale, seppur minima, di concorso di colpa, “dovuto ad un generale principio di attenzione e prudenza nel camminare”.
Ciò, sul presupposto che accanto al dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa sia configurabile un dovere di cautela in capo a chi con la cosa entra in contatto, in ossequio al principio di solidarietà ex art. 2 della Costituzione, “che comporta la necessità di adottare condotte idonee a limitare entro i limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile (Cass. civ., Sez. VI, ord. n° 18415/2019 che richiama Cass. civ., sez. III, ord. n° 2482/2018)”.

Come comportarsi in caso di incidente stradale?

In questo intervento approfondiamo il tema del risarcimento del danno in caso di incidente stradale.

Nel commento video cerchiamo in particolare di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono poste sul tema, quali ad esempio chi sostiene le spese legali o a chi competono i costi della consulenza medico-legale.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito le pagine dedicate ad Infortunistica stradale e comportamento da tenere in caso di incidente stradale.

Per i figli di genitori non sposati occorre andare in Tribunale?

In questo intervento approfondiamo il tema della disciplina di affidamento e mantenimento dei figli di genitori non sposati, nei casi di crisi della famiglia.

Nel commento video cerchiamo in particolare di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono poste sul predetto argomento, quali ad esempio l’Autorità giudiziaria competente e le modalità di definizione mediante accordo della crisi familiare.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate a Diritti dei minori e a come accordarsi tra genitori non sposati.

Il Comune e i danni derivanti dal cedimento della strada

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza n. 20423/2020, pubblicata il 23/07/2020, ha dichiarato la responsabilità del Comune per i danni cagionati ad un operaio, intento a svolgere un’operazione di spurgo, rimasto schiacciato dal proprio mezzo pesante, inclinatosi a causa del cedimento del manto stradale.

L’esaustiva sentenza sopra allegata fa il punto sull’evoluzione giurisprudenziale relativa alla responsabilità extracontrattuale da cosa in custodia, prevista dall’art. 2051 c.c., ai sensi del quale “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”, invocata dalla parte attrice a sostegno della richiesta di condanna del Comune, convenuto in giudizio.

Il Tribunale di Bologna precisa dapprima, sulla base del dato letterale della norma, che la responsabilità del custode è presunta, quando: a) il danno lamentato è stato provocato dalla cosa in custodia; e b) sussiste un rapporto di custodia, ovvero una relazione tra la cosa e colui che ha un effettivo potere sulla stessa.
Al ricorrere di tali condizioni la responsabilità del custode prescinde dal comportamento effettivo di quest’ultimo, che diviene responsabile per effetto della mera relazione con la cosa che ha cagionato il danno.

Il Giudicante quindi, richiamata la sentenza della Cassazione, Sez. Un., n. 12019/91, individua la ratio della norma nell’esigenza di “predisporre uno strumento di allocazione del danno improntato ad una finalità di giustizia distributiva”, indirizzato a trasferire il danno dal soggetto che lo subisce, senza colpa, al soggetto che ha un potere di fatto sulla cosa che quel danno ha cagionato.

Sulla base dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte è possibile pertanto affermare che la responsabilità individuata dall’art. 2051 c.c. ha natura oggettiva, con l’effetto che il custode è esonerato solo laddove riesca a provare il “caso fortuito”, inteso come elemento esterno, imprevedibile ed inevitabile, che si sia inserito, interrompendolo, nel rapporto causale tra la cosa ed il danno.

Il Tribunale di Bologna chiarisce, poi, che in materia di sinistri avvenuti su strada o suolo pubblico, la Pubblica Amministrazione può essere chiamata a rispondere quale custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c..

In giurisprudenza si è invero consolidato l’orientamento che, in casi come quello in esame, riconduce la responsabilità dell’ente pubblico alla fattispecie di cui all’art. 2051 (ex multis Cass. 15042/2008, Cass. 4495/2011, Cass. 14856/13), con abbandono dell’orientamento precedente che ammetteva la responsabilità della Pubblica Amministrazione solo al ricorrere dell’“insidia” o del “trabocchetto”, entrambi riconducibili all’alveo dell’art. 2043 c.c..

In sintesi la Pubblica Amministrazione è responsabile per i danni cagionati da difetti intrinseci della strada o da cattiva manutenzione della stessa, andando esente solo nell’ipotesi di caso fortuito, individuabile nel comportamento dell’utente o in un’alterazione repentina e non prevedibile dello stato della cosa che, “nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere” (così Cass. 14856/2013).

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza sopra allegata, precisa infine che la Pubblica Amministrazione risponde a prescindere dalla titolarità del bene, con l’effetto che l’ente pubblico può essere chiamato a risarcire anche il danno causato da una strada privata.
Infatti, ai fini dell’individuazione della responsabilità, rileva esclusivamente l’uso pubblico che del bene viene fatto.

In conclusione, la Pubblica Amministrazione risponde anche nei casi di strada privata, laddove quest’ultima sia gravata dal transito pubblico, in quanto, in tali casi, è l’amministrazione pubblica, anche se non proprietaria, ad essere gravata dall’onere di manutenere il bene.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare la pagina dedicata ad Infortunistica stradale.

I figli maggiorenni hanno il dovere di cercare lavoro

Con la recente ordinanza n. 17183 del 14/08/2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che quando il figlio abbia raggiunto la maggior età non sussiste più un obbligo automatico dei genitori di mantenerlo, neppure nei casi di mancata indipendenza economica dello stesso.

Il dovere dei genitori di mantenere i figli non permane per sempre, ma è strettamente collegato al loro dovere di educazione ed istruzione e, quindi, sussiste solo laddove sia ancora in corso un percorso di studi o per un lasso di tempo ragionevole finalizzato alla ricerca di un lavoro che assicuri al figlio l’indipendenza economica.

In ottemperanza al principio di autoresponsabilità, i figli hanno l’obbligo, terminato il loro percorso formativo, di attivarsi per reperire un’attività lavorativa che li porti all’indipendenza economica, anche riducendo, se necessario, le proprie aspirazioni.

Con l’ordinanza in commento, infatti, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato contro la pronuncia con cui la Corte di Appello di Firenze revocava l’assegnazione della casa familiare e l’assegno di mantenimento per il figlio, ultra trentenne ed ancora convivente con la madre, che aveva da tempo terminato gli studi e trovato occupazione precaria come insegnante supplente.

La Suprema Corte ha invero affermato che, se da un lato è pacifico l’obbligo dei genitori di istruire, mantenere ed educare i figli minori, tale dovere viene presuntivamente meno con la maggior età e può essere riconosciuto solo al ricorrere di determinate circostanze da valutare caso per caso.

Ciò si desume chiaramente dal tenore letterale del primo comma dell’art. 337 septies del codice civile, che prevede che “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”.

Il figlio, al compimento della maggior età, diviene infatti autonomo e capace di agire, raggiungendo altresì la capacità lavorativa, intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro remunerato.

La Corte di Cassazione precisa, inoltre, che è necessario eliminare ogni automatismo tra obbligo di mantenimento del genitore e mancato raggiungimento dell’indipendenza economica da parte del figlio, ribadendo che il riconoscimento dell’assegno potrà avvenire solo se la mancata autosufficienza sia altresì accompagnata da un concreto impegno del figlio nella propria formazione personale o nella ricerca di un impiego, qualora la fase formativa sia terminata.

In particolare, sulla base della pronuncia sopra richiamata, si può ritenere che la Corte di Cassazione abbia inteso riconoscere il diritto al mantenimento per il figlio maggiorenne, non economicamente autosufficiente, al ricorrere delle seguenti situazioni:
a) la sussistenza di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali del figlio, pur non sfociate in una misura tipica di protezione degli incapaci;
b) la prosecuzione da parte del figlio di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma l’esistenza di un percorso di realizzazione delle proprie aspirazioni, che sia ancora in corso di svolgimento ed in cui il figlio dimostri effettivo impegno ed adeguati risultati (tempestività degli esami ed adeguatezza dei voti conseguiti);
c) l’essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, durante cui il figlio si stia razionalmente ed attivamente adoperando nella ricerca di un lavoro;
d) la mancanza di un qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello stesso, sia esso confacente o meno alla specifica formazione professionale conseguita.

In conclusione, “l’obbligo di mantenimento legale cessa con la maggior età del figlio; in seguito ad essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal giudice, sulla base delle norme sopra richiamate” (così Cass, Civ., Sez. I, ordinanza 14/08/2020, n. 17183).

Spetterà, poi, alla parte (genitore o figlio maggiorenne) che richiede il riconoscimento dell’assegno di mantenimento, provare il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica e dimostrare altresì di aver curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale e di essersi, con pari impegno, adoperato per la ricerca di un lavoro.

Il monopattino elettrico

La legge 160/2019 ed il successivo D.L. 162/19, come convertito dalla Legge 8/2020, hanno dettato le regole per la circolazione del monopattino elettrico.

In particolare l’art. 75 della L. 160/2019 ha chiarito che il monopattino elettrico può circolare ed è equiparato al velocipede ai sensi del Codice della Strada, purché rispetti determinate caratteristiche tecniche stabilite dal Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 4/06/2019.

Infatti, posto che i monopattini elettrici, proprio come le biciclette, non sono soggetti ad alcuna immatricolazione e targatura, devono però:

  • avere un motore elettrico di potenza nominale continua non superiore a 0,50 kW;
  • essere dotati di un limitatore di velocità che non consenta di superare i 25 Km/h, quando viaggiano su strada, ed i 6 Km/h, quando circolano in area pedonale;
  • essere dotati di un campanello per le segnalazioni acustiche;
  • riportare la marcatura CE, prevista dalla direttiva 2006/42/CE;
  • non essere dotati di posto a sedere, perché devono essere destinati ad un utilizzo esclusivo in piedi;
  • da mezz’ora dopo il tramonto e per tutta la durata dell’oscurità, o comunque anche di giorno qualora le condizioni atmosferiche lo richiedono, devono essere equipaggiati con luci bianche o gialle anteriori e con luci rosse o catadiottri rossi posteriori per le segnalazioni visive. In mancanza non possono essere utilizzati ma solo condotti o trasportati a mano. Nelle medesime condizioni inoltre il conducente deve indossare il giubbotto o le bretelle retroriflettenti.

Chiunque circola con un monopattino a motore, avente caratteristiche tecniche diverse da quelle previste dalla norma, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 100,00 a 400,00 euro, nonché alla sanzione accessoria della confisca del mezzo.

Proprio come per la conduzione della bicicletta, non sono necessari titoli abilitativi, ma per poter utilizzare su strade pubbliche il monopattino elettrico occorre avere compiuto quattordici anni di età.

I minori di età devono inoltre indossare idoneo casco protettivo.
Circa l’idoneità del casco protettivo, la circolare del Ministero dell’Interno del 9/03/2020 ha chiarito che possono considerarsi idonei i “modelli di casco provvisti di omologazione di qualsiasi tipo (per l’uso su strada o per ambiti quali quelli sportivi per proteggere il capo da urti per caduta in velocità)”.

Non possono essere trasportate altre persone, animali od oggetti, ed è vietato condurre animali o farsi trainare da qualche veicolo.

I conducenti dei monopattini elettrici devono sempre reggere il manubrio con entrambe le mani, salvo per segnalare la manovra di svolta, e non possono procedere mai affiancati in un numero superiore a due; in ogni caso, devono viaggiare su un’unica fila quando lo richiedono le condizioni della circolazione.

Il monopattino elettrico può circolare su tutte le strade urbane in cui vi è limite di velocità inferiore o pari ai 50 Km/h, sono invece escluse le strade urbane con limite di velocità superiore o quelle dove è espressamente vietata la circolazione dei velocipedi. Sulle strade extra urbane è possibile circolare ma solo all’interno della pista ciclabile.

Il conducente del monopattino elettrico deve rispettare il limite di velocità di 25 Km/h quando circola su strada e di 6 Km/h quando circola su area pedonale, nelle aree in cui tale circolazione sia consentita.

Chiunque violi le disposizioni di comportamento e di guida sopra descritte è punibile con una sanzione amministrativa, che può variare da 50,00 a 400,00 euro, a seconda della disposizione violata.

Oltre alla disciplina specifica appena illustrata, il monopattino elettrico, in quanto veicolo equiparato al velocipede, è soggetto all’applicazione delle norme di comportamento di carattere generale previste dal Codice della Strada ed, in particolare, all’art. 182 CdS, che disciplina la circolazione dei velocipedi, oltre che, in caso di violazione, alle relative sanzioni.

A titolo esemplificativo, quindi, il conducente di monopattino elettrico ha l’obbligo di segnalare tempestivamente la svolta con il braccio, di circolare sul margine destro della carreggiata, può utilizzare il cellulare solo con l’auricolare e mantenendo libero l’uso delle mani.

Se si circola con monopattino elettrico in stato di ebbrezza o di alterazione da sostanza stupefacente o psicotropa, si risponde per violazione degli artt. 186 e 187 CdS e si è sottoposti alle medesime sanzioni previste per gli automobilisti.

Tutti gli altri dispositivi elettrici, quali segway, hoverboard e monowheel, non possono circolare su strade pubbliche, a meno che non si tratti delle apposite aree predisposte per la sperimentazione sui predetti mezzi.

Dopo aver fatto il punto sulla disciplina oggi vigente, è importante altresì segnalare che sono in rapidissimo aumento i sinistri stradali che vedono coinvolti conducenti di monopattini elettrici, molti dei quali giovanissimi.

Anche il monopattino elettrico, come la bicicletta, non è soggetto ad alcun obbligo assicurativo.
Tuttavia, in caso di sinistro causato da monopattino, il conducente (i genitori in caso di conducente minorenne) è comunque tenuto al risarcimento dei danni cagionati a terzi.

E’ quindi fondamentale il rispetto delle norme di comportamento, in quanto anche solo il concorso di colpa del conducente del monopattino potrebbe avere risvolti significativi in termini di risarcimento del danno conseguente al sinistro.

E’ altrettanto importante, in caso di sinistro, rivolgersi immediatamente ad un professionista, per poter avere, sin dall’inizio, l’assistenza tecnica di un legale, che assicuri al danneggiato la protezione dei suoi diritti ed il riconoscimento di tutti i danni sofferti.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate ad Infortunistica stradale e comportamento da tenere in caso di incidente.

Il contratto di convivenza

I conviventi di fatto, per tutta la durata della loro unione sentimentale, operano spesso una mescolanza dei loro singoli patrimoni, proprio come avviene ai coniugi durante il matrimonio.
E’ frequente infatti che i conviventi coabitino sfruttando l’abitazione di proprietà di uno solo dei partner, acquistino beni insieme, aprano conti correnti cointestati, utilizzino in modo condiviso l’autovettura, ecc…

Tale confusione patrimoniale, in caso di rottura della convivenza, può generare dissidi e pretese restitutorie.

E’ quindi consigliabile, al fine di evitare future liti, che i conviventi di fatto, attraverso la consulenza di un professionista legale, pianifichino la loro vita in comune ed il suo ipotetico scioglimento, attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza.

Come già trattato nel nostro approfondimento sui diritti dei conviventi, la Legge 20/05/2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), ha regolamentato la convivenza di fatto, introducendo altresì per i conviventi la possibilità di stipulare contratti di convivenza.

Il comma 50, dell’art. 1 della sopra richiamata disposizione stabilisce infatti che “I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza”.

L’oggetto di tale contratto è poi indicato al successivo comma 53, con cui si stabilisce che il contratto può contenere:
a) l’indicazione della residenza;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale e casalingo;
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni.

Tale elencazione non ha però, carattere tassativo, come ribadito a più riprese dalla dottrina.
I partner potranno quindi regolamentare anche altri aspetti legati alla convivenza o alla eventuale crisi della coppia, ad esempio stabilendo una somma a titolo di mantenimento del convivente economicamente più debole.

Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizioni, e laddove tali elementi vengano inseriti nella convenzione, andranno considerati come non apposti ed il contratto conserverà la sua efficacia.

Il contratto di convivenza, che può essere modificato in ogni momento, si risolve per:

  • morte di uno dei due contraenti;
  • matrimonio o unione civile dei contraenti o di uno di essi con un terzo;
  • recesso unilaterale di uno dei partner o per accordo delle parti. Nel caso in cui le parti avessero adottato il regime della comunione dei beni, la risoluzione del contratto ne determina lo scioglimento.

In presenza di una delle seguenti condizioni, il contratto di convivenza è nullo e tale nullità può essere sollevata da chiunque vi abbia interesse:
a) se concluso in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) se concluso da persona minore di età;
c) se concluso in assenza di una stabile convivenza, caratterizzata da un legame affettivo di coppia e da reciproca assistenza morale e materiale;
d) se concluso da persona interdetta;
e) in caso di condanna di una delle parte per omicidio consumato o tentato del coniuge dell’altra.

Il contratto di convivenza, le sue modifiche o la sua risoluzione, devono essere redatti in forma scritta, con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un Notaio o da un Avvocato, che, oltre a curarne la trasmissione al comune di residenza dei conviventi ai fini dell’iscrizione all’anagrafe, ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

In conclusione: è raccomandabile che i conviventi di fatto, anche attraverso l’assistenza e la consulenza di un professionista del settore, valutino l’opportunità di disciplinare convenzionalmente i loro reciproci rapporti patrimoniali, così da evitare possibili controversie future.