Novità in materia di mediazione civile

Il 30 giugno 2023 sono entrate in vigore le disposizioni del D. Lgs. 149/22 (cd. Riforma Cartabia) relative alla mediazione civile e commerciale.
La mediazione civile e commerciale è un procedimento di risoluzione alternativa delle controversie, introdotto in Italia con il D. Lgs. 28/2010, che si svolge presso un organismo accreditato dal Ministero dove un terzo imparziale (il Mediatore) aiuta le parti, assistite necessariamente dai rispettivi difensori, a trovare un accordo senza dover ricorrere all’Autorità Giudiziaria.

In alcune materie il tentativo di mediazione è obbligatorio ed è condizione necessaria per procedere poi con l’eventuale causa in Tribunale (ad esempio, in materia di contratti assicurativi e bancari, diritti reali, successioni, condominio, locazione e comodato ecc…).

La cd. Riforma Cartabia, che ha in parte ridefinito e modificato il procedimento di mediazione, ha esteso le materie per cui la mediazione è obbligatoria, ricomprendendoVi i contratti di associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura.

Tra le novità più significative della Riforma Cartabia, in materia di mediazione, vanno però evidenziate quelle di natura fiscale, che comportano importanti benefici economici per le parti che decidono di andare in Mediazione.

E’ stato infatti previsto che tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura, mentre il verbale contenente l’accordo di conciliazione e’ esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 100.000,00 euro, altrimenti l’imposta e’ dovuta per la parte eccedente.
Quest’ultima previsione risulta economicamente molto conveniente per le parti soprattutto nei casi in cui in sede di accordo di mediazione vengono disposti trasferimenti immobiliari, ad esempio in materia di successione ereditaria, di accordo tra coniugi, ecc…

Inoltre, qualora venga raggiunto l’accordo, alle parti e’ riconosciuto un credito d’imposta commisurato all’indennita’ corrisposta all’Organismo di Mediazione, fino alla concorrenza di euro 600,00.
Nei casi di mediazione obbligatoria o demandata dal Giudice, è altresì riconosciuto alle parti un ulteriore credito di imposta commisurato al compenso corrisposto al proprio avvocato per l’assistenza nella procedura di mediazione, sempre fino alla concorrenza di euro 600,00.

L’impresa familiare e i diritti del coniuge

Per impresa familiare, disciplinata nel nostro ordinamento dagli artt. 230 bis e 230 ter del codice civile, può individuarsi quell’attività economica alla quale collaborano, in modo continuativo, il coniuge, il convivente, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, qualora non sia configurabile un diverso rapporto di lavoro.
Il familiare che presta il lavoro nell’impresa altrui ha diritto ad una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Infatti, in sede di riforma del diritto di famiglia risalente all’anno 1975, il nostro Legislatore ha inteso regolare il fenomeno, molto diffuso, del lavoro prestato a favore dell’attività di famiglia, che nel contesto della “famiglia patriarcale” scontava una presunzione di gratuità.

Sono stati così riconosciuti ai familiari, che prestano lavoro e collaborano nell’impresa di famiglia, una serie di diritti, sia sotto il profilo civilistico che dal punto di vista fiscale.

La sentenza della Corte d’Appello di Bologna, Sezione Lavoro, n. 250/2022, qui in commento, fa il punto sui diritti spettanti al coniuge che ha prestato la propria attività a favore dell’impresa individuale del marito, nel momento dello scioglimento dell’unione coniugale.

Il provvedimento in oggetto conferma infatti il diritto della moglie a veder riconosciuta, al momento della cessazione dell’impresa familiare (nel caso di specie per intervenuta separazione dei coniugi), la liquidazione della propria partecipazione all’impresa del marito, nel cui ambito la ricorrente aveva da sempre svolto attività lavorativa (tenuta della contabilità, fatturazione, ecc..), mai altrimenti retribuita.

In particolare, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Bologna, Sezione Lavoro, in riforma della sentenza di primo grado che nulla aveva riconosciuto alla moglie, stabilisce il diritto della ricorrente alla liquidazione della sua quota di partecipazione all’impresa, come individuata e quantificata dal consulente tecnico d’ufficio in sede di consulenza contabile, di cui il Tribunale, giudice del primo grado, del tutto immotivatamente non aveva tenuto conto.

Con ciò viene confermato il principio, da tempo chiarito dalla giurisprudenza, secondo cui il Giudice che “intenda discostarsi dal parere reso dal consulente tecnico, deve offrire chiara ed esaustiva motivazione del proprio diverso convincimento esplicitando i motivi per cui ritiene di non recepire le conclusioni dell’ausiliario (così ex multis Cass. Civ., Sez III, 3/12/2015, n. 24630)”.

Con la medesima sentenza, ed in accoglimento di un altro motivo di appello presentato dalla moglie, la Corte d’Appello di Bologna, Sezione Lavoro, ha altresì sancito, con riferimento ai profili fiscali dell’impresa familiare, che i debiti previdenziali e fiscali che gravano sulla posizione del familiare-collaboratore devono essere posti a carico dell’impresa.
Nel caso di specie, quindi, posto che era stata accertato che la moglie partecipasse all’impresa individuale del marito per una quota pari al 49%, la Corte d’Appello ha affermato che il 51% dei debiti fiscali e previdenziali gravanti sulla moglie dovessero essere rimborsati dal marito.

Cosa succede all’assegno di divorzio in caso di nuova convivenza?

La Corte di Cassazione, con la sentenza, a Sezioni Unite, n. 32198/2021, ha chiarito quali conseguenze abbia la nuova famiglia di fatto sull’attribuzione di un assegno di divorzio a carico del precedente coniuge.

Il provvedimento della Suprema Corte trae origine dall’impugnazione ad una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, che aveva escluso l’obbligo in capo all’ex marito di corrispondere un assegno divorzile alla moglie, la quale aveva instaurato una nuova stabile convivenza, da cui era nata una figlia.
La Corte veneziana poneva a fondamento della propria decisione l’orientamento prevalente della giurisprudenza, in base a cui l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, anche non coniugale, avrebbe fatto automaticamente venire meno ogni presupposto per l’attribuzione di un assegno divorzile, in quanto la nuova unione avrebbe rescisso ogni connessione con il tenore ed il modello di vita precedenti (così Cass. Civ. n. 6855/2015 e successive).

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto non del tutto convincente tale orientamento, che non risulta supportato da alcun dato normativo ed appare incompatibile con la funzione dell’assegno divorzile, come delineata dalla giurisprudenza più recente, in particolare dalla nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, n. 28287 del 2018.
Da un lato infatti, la legge sul divorzio prevede esclusivamente che solo il passaggio a nuove nozze determini l’automatico venir meno dell’assegno divorzile; nulla è previsto per le nuove convivenze, neppure dalla Legge 76/2016, con cui si è data regolamentazione alle famiglie di fatto (cfr. sul sito l’approfondimento “I diritti dei conviventi”).
Dall’altro lato, la giurisprudenza ha chiarito, ormai in via consolidata, che l’assegno divorzile non ha solo funzione assistenziale, ovvero di dare sostegno al coniuge che a seguito dello scioglimento dell’unione coniugale si trovi privo di mezzi propri adeguati, ma ha anche finalità compensativo-perequative, volte a riequilibrare la disparità economica venutasi a creare tra i coniugi al momento del divorzio, quando tale disparità sia la conseguenza del sacrificio e del contributo prestato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare e dell’ex coniuge (cfr. sul sito l’approfondimento “Assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi”).
In sintesi, l’assegno di divorzio non va più interpretato come strumento volto alla conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma quale mezzo per riequilibrare il reddito degli ex coniugi, consentendo al coniuge più debole economicamente il raggiungimento di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, tenuto conto delle aspettative professionali a ciò sacrificate.

E’ evidente che la circostanza che il coniuge divorziato instauri una nuova convivenza stabile non può non avere effetti sul rapporto matrimoniale pregresso e sull’attribuzione dell’assegno divorzile.

Sebbene infatti la convivenza, legata ad una situazione di fatto e non ad un vincolo coniugale, non presenti quelle caratteristiche di stabilità proprie del matrimonio, essa determina tuttavia diritti e doveri di assistenza materiale e materiale, oggi peraltro regolamentati dalla Legge 76/2016.

L’ex coniuge, che conviva con un nuovo compagno a cui è legato da vincoli di assistenza morale e materiale, perde quindi ogni ragione assistenziale vantata nei confronti del precedente partner.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 32198/2021 in oggetto ha infatti chiarito che “in caso si instauri una convivenza stabile, giudizialmente provata, deve ritenersi che essa valga ad estinguere, di regola, il diritto alla componente assistenziale dell’assegno di divorzio anche per il futuro, per la serietà che deve essere impressa al nuovo impegno, anche se non formalizzato, e per la dignità da riconoscere alla nuova formazione sociale”.

La Suprema Corte ha, però, affermato che non altrettanto possa ritenersi per la componente compensativa dell’assegno di divorzio, come poc’anzi descritta.
La Corte ha infatti osservato che “se il coniuge più debole ha sacrificato la propria esistenza professionale a favore delle esigenze familiari, è ingiusto che egli perda qualsiasi diritto ad una compensazione dei sacrifici fatti, solo perché, al momento del divorzio o prima di esso, si è ricostruito una vita affettiva”.

La Corte di Cassazione ha dunque concluso nel ritenere che l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, sebbene incida sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio e sulla quantificazione del suo ammontare, non determini, necessariamente ed automaticamente, la perdita del relativo diritto, qualora l’assegno divorzile abbia funzione esclusivamente compensativa.

Va infine segnalato, come spunto di ulteriore riflessione, che la Corte di Cassazione, con la pronuncia in oggetto, dopo aver fatto chiarezza sulle conseguenze della nuova convivenza in materia di assegno divorzile, ha ribadito che l’accordo tra coniugi risulta ad oggi lo strumento privilegiato per la risoluzione degli aspetti patrimoniali della crisi post-coniugale.

In sede di accordo infatti i coniugi, laddove sussistessero esigenze perequativo-compensative, potrebbero modulare il proprio percorso al di fuori del rigido schema dell’assegno mensile perpetuo, che terrebbe vincolati le parti anche nel futuro.
Potrebbe, ad esempio, essere prevista a favore del coniuge più debole la costituzione di una rendita predeterminata, da corrispondersi in un’unica soluzione o per un numero limitato di anni, sotto forma di assegno temporaneo, oppure mediante trasferimento di beni immobili o di altra natura.

Una liquidazione definitiva dei rapporti coniugali, oltre ad evitare future conflittualità, garantirebbe la posizione di entrambe le parti, consentendo al coniuge debole di avere un capitale di ripartenza, sulla base di cui intraprendere un nuovo percorso di vita, e tutelando al contempo il coniuge onerato che non si sentirebbe limitato nei suoi progetti di vita futuri dal dover continuare a corrispondere un assegno al partner precedente.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito le aree tematiche Separazione e Divorzio, e Differenza tra divorzio giudiziale e congiunto.

L’affidamento del minore ai Servizi Sociali

Il nostro ordinamento prevede la presenza in ogni territorio dei cosiddetti “Servizi Sociali”.
Cosa si intende innanzitutto per Servizi Sociali?
Partiamo dalla definizione presente sul sito della Treccani: “l’assistenza sociale comprende l’insieme di compiti della pubblica amministrazione consistenti nella fornitura di prestazioni, normalmente gratuite, dirette all’eliminazione delle disuguaglianze economiche e sociali all’interno della società”.

Si tratta quindi di un insieme di attività finalizzate a garantire l’assistenza alle persone in difficoltà, bisognose di cure e di aiuto: famiglie, bambini, anziani, immigrati, soggetti con problemi di tossicodipendenze ecc.

In particolare, l’assistenza sociale si occupa di elaborare misure efficaci per la prevenzione, la riduzione o, nella migliore delle ipotesi, l’eliminazione delle condizioni di disagio, che siano di natura economica o sociale.
Gli interventi si inseriscono in una sfera che riguarda sia la salute fisica che il benessere psicologico, sociale e relazionale; l’obiettivo finale è abilitare gli individui a sviluppare il proprio potenziale.

I servizi sociali operano sulla base di una normativa nazionale, regionale e locale, con la finalità di promuovere la salute, il benessere e l’autonomia dei cittadini.

Tra i compiti del Servizio sociale, nell’ambito della materia minorile, troviamo l’istituto “dell’affidamento del minore ai servizi sociali”: cerchiamo di capire cosa si intende con tale espressione.

Nel nostro ordinamento troviamo quattro tipologie di affidamento del minore ai servizi sociali, previste espressamente da diverse normative, ovvero:

1)Affidamento ai servizi sociali ex art. 25 Legge 835/1935 (legge istitutiva del Tribunale dei Minori) ed ex art. 330-333 codice civile.
L’istituto creato con la Legge che istituì i Tribunali per i Minorenni, nel lontano anno 1935, aveva inizialmente lo scopo di occuparsi dei minori che si trovavano in situazioni di degrado o trascuratezza da parte dei genitori, prevedendone il trasferimento in istituti rieducativi.

Ad oggi questa norma non viene di fatto più applicata e nei procedimenti davanti al Tribunale per i Minori viene invece disposto l’affidamento dei minori al servizio sociale ex art. 330 e seguenti del codice civile, ovvero nei procedimenti che riguardano la “responsabilità genitoriale”, termine introdotto con la Riforma della filiazione del 2013, che sostituisce la precedente espressione di “potestà genitoriale”, rappresentando un concetto più moderno ed in linea con la giurisprudenza europea e con le convenzioni sui Diritti del fanciullo, in quanto mette al centro l’interesse del minore.

Nell’ambito di questi procedimenti i minori possono essere affidati ai servizi sociali quando i comportamenti dei genitori creano un pregiudizio all’interesse dei figli; tale affidamento può comportare il collocamento in una famiglia affidataria, oppure possono essere collocati anche presso la famiglia di origine, o presso uno solo dei genitori, infine presso un parente stretto.

In questi casi, a meno che non sia dichiarata la decadenza dalla responsabilità genitoriale (nel qual caso la stessa verrà esercitata da un Tutore nominato dal Tribunale o dall’altro genitore che non sia stato dichiarato decaduto) o a meno che non venga diversamente indicato nel Decreto del Tribunale, le scelte straordinarie sulla vita dei minori (per tali si intendono quelle che hanno una ricaduta permanente sulla vita dei figli, quali trattamenti chirurgici, neuropsichiatrici, documenti per espatrio, ecc..ecc..) restano di competenza dei genitori biologici.

2) Affidamento ai servizi sociali ex art. 4 Legge 184/1983 (Legge sull’adozione).
La legge sull’adozione prevede che con il consenso dei genitori biologici, o anche in assenza di questo (cosiddetto “affido giudiziario”), il minore venga temporaneamente affidato ad una famiglia affidataria, allorquando lo stesso si trovi in un ambiente non idoneo alla sua serena crescita ed allo scopo di tentare di recuperare la genitorialità dei genitori biologici.

Tale affidamento ha una durata massima di 24 mesi prorogabili e, solo se la situazione apparirà irreversibile, il procedimento potrà sfociare in una dichiarazione di adottabilità.

Nel provvedimento del Tribunale dei Minori verranno date indicazioni sui poteri riconosciuti all’affidatario e sui compiti del servizio sociale.
In particolare, ex art. 5 Legge 184/1983, agli affidatari sono dati i compiti di tenere i rapporti ordinari con la scuola e le autorità sanitarie.

3) Affidamento ai servizi sociali ex art. 337 – ter c.c.
La norma disciplina cosa può fare il Tribunale in caso di conflittualità tra i genitori.
In questo caso la decisione spetta al Tribunale Ordinario che decide in caso di separazione, divorzio o sulle questioni relative all’affidamento e mantenimento dei figli non matrimoniali.

Il Tribunale in questi casi, quando la conflittualità tra i genitori raggiunge livelli talmente elevati da costituire un potenziale pregiudizio per i figli minori, può affidare i figli della coppia ai servizi sociali.

In casi estremamente gravi tale affidamento può anche comportare il collocamento dei minori presso una famiglia affidataria.
Il Tribunale ne stabilirà dettagliatamente le modalità nel provvedimento che lo dispone.

4) Affidamento ai servizi sociali del minore che ha commesso un reato ex art. 28 D.P.R. 448/1988.
Terminiamo la disamina con l’affidamento ai servizi sociali del minore che ha commesso un reato.
La legge sul procedimento penale minorile prevede espressamente che il Giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare se la personalità del minore possa essere recuperata.

Il minore viene quindi affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia che, in collaborazione con i locali servizi sociali, svolgono le opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.

Nel caso in cui il periodo di osservazione si concluda positivamente, il Tribunale per i Minori dichiarerà estinto il reato.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito la pagina dedicata a Diritti dei Minori.

Per i figli di genitori non sposati occorre andare in Tribunale?

In questo intervento approfondiamo il tema della disciplina di affidamento e mantenimento dei figli di genitori non sposati, nei casi di crisi della famiglia.

Nel commento video cerchiamo in particolare di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono poste sul predetto argomento, quali ad esempio l’Autorità giudiziaria competente e le modalità di definizione mediante accordo della crisi familiare.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate a Diritti dei minori e a come accordarsi tra genitori non sposati.

Cosa significa negoziazione assistita?

In questo intervento approfondiamo il tema della negoziazione assistita, che è una procedura, recentemente introdotta, che consente di risolvere una lite senza andare in Tribunale.

Le parti infatti, con l’assistenza obbligatoria di un difensore ciascuna, negoziano fino ad arrivare ad un accordo.

Nel commento video vengono quindi approfondite le particolarità ed i vantaggi di tale procedura, utilizzabile anche nei casi di crisi della famiglia.

Per ulteriori approfondimenti è possibile consulatare la pagina sul significato di Negoziazione Assistita.

Qual è la differenza tra separazione giudiziale e separazione consensuale?

Con questo commento video cerchiamo di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono rivolte in caso di crisi della famiglia.

Sicuramente uno dei dubbi maggiormente ricorrenti riguarda le differenze tra separazione (o divorzio) giudiziale e separazione (o divorzio) consensuale.

In questo intervento, dopo aver chiarito in cosa consistono tali differenze e le caratteristiche delle due diverse procedure, vengono approfondite anche le tempistiche per ottenere la separazione ed il divorzio.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate a Separazione e Divorzio ed alle differenze tra separazione consensuale e giudiziale.

I figli maggiorenni hanno il dovere di cercare lavoro

Con la recente ordinanza n. 17183 del 14/08/2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che quando il figlio abbia raggiunto la maggior età non sussiste più un obbligo automatico dei genitori di mantenerlo, neppure nei casi di mancata indipendenza economica dello stesso.

Il dovere dei genitori di mantenere i figli non permane per sempre, ma è strettamente collegato al loro dovere di educazione ed istruzione e, quindi, sussiste solo laddove sia ancora in corso un percorso di studi o per un lasso di tempo ragionevole finalizzato alla ricerca di un lavoro che assicuri al figlio l’indipendenza economica.

In ottemperanza al principio di autoresponsabilità, i figli hanno l’obbligo, terminato il loro percorso formativo, di attivarsi per reperire un’attività lavorativa che li porti all’indipendenza economica, anche riducendo, se necessario, le proprie aspirazioni.

Con l’ordinanza in commento, infatti, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato contro la pronuncia con cui la Corte di Appello di Firenze revocava l’assegnazione della casa familiare e l’assegno di mantenimento per il figlio, ultra trentenne ed ancora convivente con la madre, che aveva da tempo terminato gli studi e trovato occupazione precaria come insegnante supplente.

La Suprema Corte ha invero affermato che, se da un lato è pacifico l’obbligo dei genitori di istruire, mantenere ed educare i figli minori, tale dovere viene presuntivamente meno con la maggior età e può essere riconosciuto solo al ricorrere di determinate circostanze da valutare caso per caso.

Ciò si desume chiaramente dal tenore letterale del primo comma dell’art. 337 septies del codice civile, che prevede che “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico”.

Il figlio, al compimento della maggior età, diviene infatti autonomo e capace di agire, raggiungendo altresì la capacità lavorativa, intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro remunerato.

La Corte di Cassazione precisa, inoltre, che è necessario eliminare ogni automatismo tra obbligo di mantenimento del genitore e mancato raggiungimento dell’indipendenza economica da parte del figlio, ribadendo che il riconoscimento dell’assegno potrà avvenire solo se la mancata autosufficienza sia altresì accompagnata da un concreto impegno del figlio nella propria formazione personale o nella ricerca di un impiego, qualora la fase formativa sia terminata.

In particolare, sulla base della pronuncia sopra richiamata, si può ritenere che la Corte di Cassazione abbia inteso riconoscere il diritto al mantenimento per il figlio maggiorenne, non economicamente autosufficiente, al ricorrere delle seguenti situazioni:
a) la sussistenza di una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali del figlio, pur non sfociate in una misura tipica di protezione degli incapaci;
b) la prosecuzione da parte del figlio di studi ultraliceali con diligenza, da cui si desuma l’esistenza di un percorso di realizzazione delle proprie aspirazioni, che sia ancora in corso di svolgimento ed in cui il figlio dimostri effettivo impegno ed adeguati risultati (tempestività degli esami ed adeguatezza dei voti conseguiti);
c) l’essere trascorso un lasso di tempo ragionevolmente breve dalla conclusione degli studi, durante cui il figlio si stia razionalmente ed attivamente adoperando nella ricerca di un lavoro;
d) la mancanza di un qualsiasi lavoro, pur dopo l’effettuazione di tutti i possibili tentativi di ricerca dello stesso, sia esso confacente o meno alla specifica formazione professionale conseguita.

In conclusione, “l’obbligo di mantenimento legale cessa con la maggior età del figlio; in seguito ad essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal giudice, sulla base delle norme sopra richiamate” (così Cass, Civ., Sez. I, ordinanza 14/08/2020, n. 17183).

Spetterà, poi, alla parte (genitore o figlio maggiorenne) che richiede il riconoscimento dell’assegno di mantenimento, provare il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica e dimostrare altresì di aver curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale e di essersi, con pari impegno, adoperato per la ricerca di un lavoro.

Unione Civile: che cos’è e com’è disciplinata

La Legge 20/05/2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), ha istituito l’Unione Civile, riconoscendo così il legame tra persone dello stesso sesso tra quelle formazioni sociali tutelate e garantite dagli artt. 2 e 3 della Costituzione.

A seguito, quindi, dell’entrata in vigore della predetta disposizione normativa, due persone dello stesso sesso, maggiorenni, unite da un vincolo sentimentale possono contrarre unione civile di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni, acquisendo così una posizione equiparabile a quella dei coniugi.

Le parti, mediante dichiarazione da effettuare all’ufficiale dello stato civile, possono anche concordare di adottare, per tutta la durata dell’unione civile, un cognome comune, scegliendo tra quello dei partner.

Proprio come i coniugi, con la sottoscrizione dell’unione civile, le parti acquistano i medesimi diritti ed assumono gli stessi obblighi, in particolare il dovere reciproco di assistenza morale e materiale, di coabitazione e di contribuzione ai bisogni della famiglia, in base alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo.

Anche il regime patrimoniale dell’unione civile viene disciplinato in analogia a quello del matrimonio, ovvero il regime ordinario è quello della comunione dei beni, salvo diversa convenzione tra le parti.

L’unione civile si scioglie per morte di un partner ed in tal caso si applicano le disposizioni previste dal codice civile per la successione del coniuge.

In sede di successione legittima, quindi, la parte sopravvissuta succede all’altra nelle medesima maniera del coniuge ed, in caso di successione ereditaria, resta salva anche per la parte di unione civile una quota di legittima sull’asse ereditario del partner deceduto.

In caso di morte del partner inoltre, la parte sopravvissuta ha diritto a tutte le indennità previste dal diritto del lavoro.
Del resto, in materia di diritto del lavoro, le parti dell’unione civile possono godere della disciplina prevista per il congedo matrimoniale, nonché, tra gli altri, dei permessi per lutto o per assistere il partner disabile.

Le parti dell’unione civile, però, proprio come accade per i coniugi, possono decidere di sciogliere la propria unione, per intervenuta crisi nel rapporto di coppia.

Ogni partner può infatti chiedere il “divorzio” in qualunque momento e anche se l’altro non è d’accordo.
Occorre però che la parte formalizzi la propria intenzione di sciogliere il legame, attraverso un’apposita dichiarazione avanti all’ufficiale di stato civile.
Decorsi tre mesi da tale dichiarazione, è poi proponibile la domanda di scioglimento dell’unione civile.

In sede di “divorzio”, attraverso un procedimento del tutto analogo a quello previsto per i coniugi, occorrerà quindi regolare tutti gli aspetti patrimoniali del rapporto, con possibilità anche di riconoscere ad uno dei partner un assegno divorzile o l’assegnazione della casa nella quale la coppia aveva fissato la propria residenza.

Gli effetti dello scioglimento dell’unione civile sono immediati e non occorre, come per i coniugi, attendere prima il decorso di un periodo di separazione.

E’, quindi, consigliabile in caso di scioglimento dell’unione civile che le parti si rivolgano ad un professionista nel settore legale per valutare i diritti e gli obblighi connessi alla cessazione della propria relazione sentimentale.

Separarsi con la Negoziazione Assistita

Il D.L. n. 132 del 2014, convertito con modificazione dalla Legge 10/11/2014 n. 162, ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento di soluzione consensuale dei conflitti familiari alternativo alla procedura avanti al Tribunale: la negoziazione assistita.

Il procedimento di negoziazione assistita consente invero ai coniugi di separarsi, divorziare o modificare le condizioni della separazione o del divorzio, in via negoziale, senza alcun deposito o udienza davanti al Giudice.

E’, comunque, obbligatoria l’assistenza di almeno un Avvocato per coniuge, così da garantire anche in fase negoziale il rispetto dei diritti delle parti.

Il procedimento di negoziazione assistita si svolge attraverso una doppia fase negoziale, che si articola, dapprima, nella sottoscrizione di una convenzione di negoziazione assistita, con cui le parti definiscono le modalità di svolgimento della negoziazione, e, successivamente, nella sottoscrizione dell’accordo di separazione o di divorzio.

Tale accordo dovrà poi essere depositato presso la Procura della Repubblica, al fine di ottenere da parte del P.M. l’autorizzazione in caso di figli minori o non autosufficienti, o il nulla osta negli altri casi. Successivamente l’accordo sarà trasmesso all’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è stato contratto il matrimonio per l’annotazione negli appositi Registri.

I coniugi possono ricorrere alla negoziazione anche in presenza di figli, minori, disabili, o non economicamente autosufficienti.
In tal caso, il Pubblico Ministero autorizzerà l’accordo solo dopo aver valutato la rispondenza dello stesso all’interesse dei figli.

In sede di negoziazione assistita i coniugi, oltre a disporre dell’eventuale mantenimento del coniuge e/o dei figli, potranno anche raggiungere accordi che comportino trasferimenti immobiliari.

L’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita ha la stessa efficacia dei provvedimenti del Tribunale ed HA IL VANTAGGIO DI UNA MAGGIORE RAPIDITA’ non dovendo recarsi in Tribunale!!

Per tutta la durata del procedimento le parti devono cooperare in buona fede e con lealtà al fine di risolvere bonariamente il conflitto coniugale.

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare nel sito il video dedicato alla negoziazione assistita.