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Responsabilità da cosa in custodia del gestore di sala cinematografica

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza non definitiva n. 492/2021, ha accertato la responsabilità da cose in custodia (art. 2051 c.c.) del convenuto, gestore di una sala cinematografica, per i danni riportati dall’attrice, utente del cinema, caduta a causa di un gradino non visibile.

L’art. 2051 c.c., in materia di responsabilità civile per i danni causati da cose in custodia, individua un’ipotesi di responsabilità oggettiva (sulla responsabilità da cose in custodia, cfr. l’approfondimento “Il Comune e i danni derivanti dal cedimento della strada”).
Sull’attore, presunto danneggiato, incombe quindi la dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia, ovvero la prova che il proprio danno sia derivato da un’anomalia del bene oggetto di custodia (cfr. Cass. Civ. Sez. VI, ord. 18236/2018; Cass. Civ. Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 25214, Cass. Civ. Sez. III, Ord. 25837/2017).
Il custode convenuto potrà invece liberarsi dalla responsabilità solamente nel caso in cui sia in grado di dimostrare il caso fortuito, restando in capo allo stesso ogni altra conseguenza dannosa derivante dalla cosa custodita.

L’esaustiva sentenza in commento fa il punto sull’onere della prova incombente sull’attore che agisce in giudizio ai sensi dell’art. 2051 c.c., per sentire dichiarare la responsabilità del custode.

In particolare, il Tribunale di Bologna, dopo aver precisato, richiamando l’orientamento espresso dalla Suprema Corte, che l’attrice è onerata dal provare il rapporto di custodia, il fatto storico generatore del danno ed il rapporto di causa tra il danno e la cosa oggetto di custodia, ha ritenuto che, nel caso di specie, dalla documentazione prodotta in causa e dalle dichiarazioni del testimone risultasse provata sia la pericolosità dei luoghi sia la dinamica della caduta dell’utente, riconducibile alla predetta pericolosità.

Il Giudice ha poi escluso che la condotta dell’attrice potesse configurare un’ipotesi di caso fortuito, idonea ad elidere la responsabilità del custode.
La sentenza in commento, infatti, attraverso un’approfondita ricostruzione giurisprudenziale e dottrinale, precisa quali siano i limiti per la sussistenza del caso fortuito, confermando che la condotta del danneggiato può assumere rilievo esimente solo quando sia “connotata dalla totale assenza delle cautele normalmente attese e prevedibili, in rapporto alle circostanze dei luoghi”, così da costituire un fatto dotato di esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

Pur considerando la condotta della danneggiata esente da censure sotto il profilo della responsabilità del custode, il Tribunale di Bologna ha però riconosciuto in capo all’attrice una percentuale, seppur minima, di concorso di colpa, “dovuto ad un generale principio di attenzione e prudenza nel camminare”.
Ciò, sul presupposto che accanto al dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa sia configurabile un dovere di cautela in capo a chi con la cosa entra in contatto, in ossequio al principio di solidarietà ex art. 2 della Costituzione, “che comporta la necessità di adottare condotte idonee a limitare entro i limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile (Cass. civ., Sez. VI, ord. n° 18415/2019 che richiama Cass. civ., sez. III, ord. n° 2482/2018)”.

Cosa significa negoziazione assistita?

In questo intervento approfondiamo il tema della negoziazione assistita, che è una procedura, recentemente introdotta, che consente di risolvere una lite senza andare in Tribunale.

Le parti infatti, con l’assistenza obbligatoria di un difensore ciascuna, negoziano fino ad arrivare ad un accordo.

Nel commento video vengono quindi approfondite le particolarità ed i vantaggi di tale procedura, utilizzabile anche nei casi di crisi della famiglia.

Per ulteriori approfondimenti è possibile consulatare la pagina sul significato di Negoziazione Assistita.

Qual è la differenza tra separazione giudiziale e separazione consensuale?

Con questo commento video cerchiamo di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono rivolte in caso di crisi della famiglia.

Sicuramente uno dei dubbi maggiormente ricorrenti riguarda le differenze tra separazione (o divorzio) giudiziale e separazione (o divorzio) consensuale.

In questo intervento, dopo aver chiarito in cosa consistono tali differenze e le caratteristiche delle due diverse procedure, vengono approfondite anche le tempistiche per ottenere la separazione ed il divorzio.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate a Separazione e Divorzio ed alle differenze tra separazione consensuale e giudiziale.

Assegno divorzio e disparità economica coniugi

Assegno di divorzio e disparità economica tra i coniugi

Alla luce della sentenza n. 18287/2018, con cui la Corte di Cassazione, a Sezione Unite, è intervenuta sul tema dell’assegno divorzile, l’accertamento preliminare sull’esistenza di una significativa disparità economica, reddituale e patrimoniale tra i coniugi al momento del divorzio, costituisce presupposto per l’eventuale riconoscimento dell’assegno.

La Corte di Cassazione ha, infatti, offerto una rilettura delle norme contenute nell’art. 5 della legge sul divorzio (Legge 898/70), orientata a riconoscere all’assegno di divorzio diverse funzioni, tra cui quella assistenziale, qualora un coniuge si trovi del tutto sprovvisto di redditi o mezzi autonomi, e quella perequativa – compensativa, volta a compensare il contributo dato da uno dei coniugi alla famiglia, sacrificando le proprie aspettative professionali, e grazie a cui l’altro abbia potuto incrementare la propria capacità lavorativa e di reddito.

In particolare la Corte di Cassazione ha chiarito che, ai fini della valutazione circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno di divorzio, il Giudice deve condurre un giudizio unitario, accertando preliminarmente l’esistenza e l’entità di uno squilibrio, determinato dal divorzio, tra i mezzi a disposizione di entrambi i coniugi, e, di seguito, in che misura tale eventuale squilibrio sia dipendente dalle scelte di conduzione di vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il conseguente sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti.

Secondo le Sezioni Unite il predetto giudizio deve comporsi di tre momenti fondamentali: il primo volto all’accertamento dell’eventuale esistenza ed entità dello squilibrio patrimoniale tra i coniugi; il secondo attinente all’accertamento del nesso causale tra tale eventuale disparità e gli indicatori previsti dalla legge; il terzo volto a determinare l’importo perequativo-compensativo dell’assegno nel caso concreto.

Con la sentenza n. 1432/2019, il Tribunale Civile Di Bologna recepisce tale orientamento, sancendo l’insussistenza del diritto all’assegno divorzile nei casi in cui manchi una “effettiva disparità economica – patrimoniale tra le parti, tale da giustificare l’attribuzione ad uno degli ex coniugi di un emolumento economico per solidarietà post – coniugale”.

Nel caso in esame, invero, il Tribunale aveva accertato che entrambi i coniugi, ormai pensionati, erano gravati da numerosi debiti assunti in costanza di matrimonio, con la conseguenza che la situazione economica e patrimoniale delle parti appariva sostanzialmente equivalente.

Per tale motivo, “in assenza di un apprezzabile squilibrio”, che veda uno dei coniugi “in posizione significativamente deteriore, manca il presupposto fondamentale ed imprescindibile per riconoscere in favore dell’attrice un emolumento economico da parte dell’ex coniuge”.

In allegato il testo integrale della sentenza. E’ inoltre possibile consultare il nostro approfondimento Assegno di divorzio e sacrifici del coniuge: il caso “Berlusconi Lario”, nonchè l’area tematica Separazione e divorzio.

Valore delle conversazioni whatsapp nel processo

Quale valore hanno le conversazioni what’s app nel processo

Quale valore hanno le conversazioni What’s app nell’ambito del processo? Possono essere utilizzate come prova?

Queste domande stanno impegnando da qualche tempo gli operatori del diritto e le aule di giustizia, in ragione del fondamentale ruolo che la tecnologia riveste nella quotidianità di ognuno.

Infatti, la recente dirompente evoluzione tecnologica ha fatto sì che le applicazioni di messaggistica istantanea — prima tra tutte What’s app, ma tra queste possono annoverarsi anche Facebook, Signal, Viber e molte altre — siano diventate il mezzo primario di comunicazione. Queste applicazioni vengono oggi utilizzate principalmente per scopi privati, ma a volte sono impiegate anche nei rapporti professionali o per creare chat di lavoro.

Per questo motivo, accade spesso che conversazioni intrattenute mediante strumenti di messaggistica istantanea assumano un ruolo rilevante anche ai fini di giustizia, sia in ambito civile che penale, e che risulti importante poterle utilizzare nell’ambito dei processi.
Si è così posto il quesito di come qualificare tali conversazioni ai fini processuali e, conseguentemente, di identificarne il relativo regime probatorio.

Le chat di What’s app rientrano nella definizione di prova documentale e soggiacciono, quanto al processo civile, al disposto di cui all’art. 2712 c.c., secondo cui le riproduzioni fotografiche e informatiche formano piena prova nel giudizio dei fatti o delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.

Anche in ambito penale, la Cassazione ha chiarito che le conversazioni What’s app devono inquadrarsi nell’ambito della prova documentale di cui è consentita l’acquisizione in giudizio ex art. 234 c.p.p. La Suprema Corte ha, infatti, escluso che si tratti di intercettazioni telefoniche (art. 266 c.p.p.), né di sequestro di corrispondenza (art. 254 c.p.p.), in quanto, una volta che tali conversazioni sono state “archiviate” sul dispositivo, non si tratta più né di un flusso di conversazioni in corso, né di corrispondenza, che implica una spedizione o una ricezione in atto da parte del mittente (tra le altre, Cass. sent. n. 1822/2018). Piuttosto, si è in presenza di un dato giacente nella memoria del cellulare.

Una volta chiarito il valore di prova documentale delle conversazioni intrattenute tramite strumenti di messaggistica istantanea, l’attenzione va focalizzata sulle modalità attraverso cui far entrare tali prove nel giudizio, affinché le stesse risultino utilizzabili ai fini della decisione. In particolare, la questione attiene all’attendibilità della prova. Infatti, una delle problematiche più ricorrenti con riguardo alle prove informatiche attiene alla loro affidabilità, stante la facilità di manipolazione a cui le stesse sono soggette e la questione si pone, nello specifico, quando vengono prodotte in giudizio trascrizioni o riproduzioni delle originali conversazioni.

Quanto al processo civile, alla luce del principio di non contestazione e del disposto di cui all’art. 2712 c.c., l’orientamento della giurisprudenza è quello di valorizzare l’utilizzabilità e l’attendibilità della prova fornita fino a quando la sua fedeltà all’originale non sia disconosciuta dalla parte contro cui la stessa è utilizzata.

Così, ad esempio, è stato reputato valido il licenziamento intimato tramite What’s app, (ritenendo, peraltro, assolto l’onere dell’intimazione per iscritto), posto che il destinatario, nei 60 giorni successivi, aveva inviato la lettera di contestazione, così da non porre dubbi circa l’effettiva ricezione del messaggio (Trib. Catania, ordinanza 27.06.2017). O, ancora, i messaggi inviati in una chat what’s app formata tra colleghi di lavoro sono stati assunti come prova del danno all’attività lavorativa e all’immagine del datore di lavoro, trattandosi di messaggi non contestati dalla parte (Trib Milano, sent. 30.5.2017).

Quando, invece, le trascrizioni dei messaggi What’s app divengano oggetto di contestazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l’utilizzabilità delle trascrizioni prodotte è condizionata all’acquisizione del supposto informatico, al fine di verificarne la paternità e l’affidabilità di quanto in esse contenuto (Cass. pen. sent. n. 49016/2017, Trib. Milano, sez. lavoro, 24.10.2017 ).

L’acquisizione del dispositivo diviene ancora più centrale e necessaria nell’ambito del processo penale, ove la prova è più rigorosa e l’accertamento della responsabilità si esige oltre ogni ragionevole dubbio.

Di talché, la Cassazione ritiene che le trascrizioni o le riproduzioni fonografiche di conversazioni what’s app siano utilizzabili soltanto ove ne sia accertata la conformità all’originale, mediante acquisizione del relativo supporto.

Inoltre, considerata la difficoltà riscontrabile nel depositare il dispositivo in originale, è possibile valutare il deposito della cd. “copia forense”, una relazione tecnico-informatica eseguita da un perito, mediante la quale si estrapola una copia digitale del dispositivo, con indicazione della metodologia utilizzata per la sua formazione, onde garantire l’assenza di alterazioni o manipolazioni (v. l. 48/2008 di recepimento della Convenzione di Budapest 2001 sulla criminalità informatica, che prescrive, nell’estrapolazione dei dati, l’adozione di misure tecniche atte ad assicurare la conservazione degli originali e ad impedirne l’alterazione).

Svolta a sinistra e incidente stradale

Svolta a sinistra e incidente stradale

In termini di responsabilità da sinistro stradale e conseguente risarcimento del danno, cosa accade nell’ipotesi, sempre più frequente, in cui il conducente di un veicolo, nell’intraprendere manovra di svolta a sinistra, urta un altro veicolo, in prevalenza motociclo o bicicletta, proveniente da tergo, nella sua stessa direzione di marcia, in manovra di sorpasso?

Di chi è la colpa? Del conducente del veicolo in svolta o del conducente del mezzo in sorpasso?

La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che il conducente di un veicolo che debba svoltare a sinistra, ha l’obbligo di dare la precedenza, prima, ai veicoli provenienti da destra (ossia quelli dal lato opposto della strada) ed ha altresì l’obbligo, che deriva dalla comune prudenza, di assicurarsi, prima di svoltare, che non sopraggiungano veicoli da dietro, ai quali spetta al pari la precedenza, anche se si trovano in una illegittima fase di sorpasso (così ex multis Cass. Civ., Sez. III, 27/07/2012, n. 13380; Cass. Civ., Sez III, 4/03/2004, n. 4402; Tribunale di Genova, sentenza n. 1903/2015).

L’art. 154 del Codice della Strada stabilisce, infatti, che i conducenti che intendono eseguire una manovra per immettersi nel flusso della circolazione, per cambiare direzione o corsia, per invertire il senso di marcia, per fare retromarcia, per voltare a destra o a sinistra, per impegnare un’altra strada, per immettersi in un luogo non soggetto a pubblico passaggio, oppure per fermarsi, devono:
a) assicurarsi di poter effettuare la manovra senza creare pericolo o intralcio agli altri utenti della strada, tenendo conto della posizione, della distanza e della direzione di essi;
b) segnalare con sufficiente anticipo la loro intenzione.

Tale orientamento è stato altresì recentemente confermato da Cass. Pen. 19/10/2017, sentenza n. 48266, in cui, decidendo sul caso di un sinistro avvenuto tra il conducente di un motociclo in fase di sorpasso irregolare a velocità sostenuta ed il conducente di un veicolo in fase di svolta a sinistra, è stato ribadito che la verifica del conducente di non recare pericolo o intralcio durante il cambio di direzione, in particolare nell’ipotesi di svolta a sinistra, deve perdurare dall’inizio alla fine della manovra.

Del resto, in tema di responsabilità derivante da circolazione stradale, nel caso di scontro tra veicoli, anche ove il Giudice abbia accertato la colpa di uno dei conducenti, non può, per ciò solo, ritenere superata la presunzione posta a carico anche dell’altro dall’art. 2054 c.c., ma è tenuto a verificare nel concreto se quest’ultimo abbia o meno tenuto una condotta di guida corretta (così ex multis Cass. Civ., Sez. III, 4/11/2014, n. 23431).

Il secondo comma dell’art. 2054 del codice civile prevede, infatti, che “nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”.

E’, quindi, verosimile che in caso di sinistro avvenuto tra un veicolo in svolta a sinistra ed un mezzo in sorpasso, verrà riconosciuto un concorso di colpa a carico di entrambi i conducenti, la cui misura, in caso di lite, sarà accertata dal Giudice di merito all’esito della valutazione delle prove raccolte ed a seguito dell’eventuale espletamento di una Consulenza Tecnica cinematica.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito la pagina dedicata ad Infortunistica stradale nonchè il video su come comportarsi in caso di incidente stradale.

Riconoscimento sentenze straniere di adozione

Riconoscimento delle sentenze straniere di adozione di minore

Quale valore assume in Italia la sentenza straniera di adozione di un minore? È possibile procedere al riconoscimento nell’ambito dell’ordinamento interno?

La legge 218/1995, recante norme interne di diritto internazionale privato, si occupa della relativa questione, stabilendo un’articolata disciplina. In particolare, all’art. 41, primo comma, è previsto che i provvedimenti stranieri in materia di adozione sono riconosciuti in Italia ai sensi degli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge, mentre al secondo comma vengono fatte salve le disposizioni di carattere speciale in materia di adozione di minori. La legge, pertanto, mira a stabilire un coordinamento tra la disciplina generale di diritto internazionale privato e le leggi speciali in materia, nella specie, la legge 184/1983 sull’adozione internazionale di minori, ritenuta prevalente rispetto alla prima.

Nella prassi, tuttavia, non è sempre chiaro quando si debba fare applicazione dell’una o dell’altra normativa.

In particolare, si procederà al riconoscimento secondo le norme del diritto internazionale privato delle adozioni cd. “estere”, caratterizzate, quindi, integralmente da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano.
In presenza, invece, di elementi di collegamento con l’ordinamento interno, richiamati dalla legge 184/1983, sarà applicabile il procedimento di riconoscimento disciplinato dalla relativa normativa.
I due procedimenti presentano rilevanti diversità. Invero, la normativa generale prevede il riconoscimento diretto delle sentenze straniere che, al ricorrere di determinati presupposti, sono soggette a trascrizione automatica nei registri di stato civile, senza necessità di ricorso ad alcun procedimento. Inoltre, in caso di mancata attuazione o di contestazione del riconoscimento, è previsto il ricorso alla Corte d’Appello del luogo di attuazione.
Al contrario, la legge speciale sull’adozione internazionale richiede, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera di adozione, la delibazione da parte del Tribunale per i Minorenni.

Le difficoltà nell’individuazione della disciplina applicabile in concreto hanno condotto a numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità e della Corte Costituzionale, che a più riprese si sono occupate del coordinamento delle due normative.

Orbene, dall’analisi delle pronunce rese, emerge una tendenza pressoché assoluta da parte delle Corti ad attrarre il riconoscimento del provvedimento straniero di adozione nell’ambito di applicazione della l. 184/83, con conseguente necessità di delibazione del Tribunale per i Minorenni. Sicché, la disciplina della l. 218/95 viene ritenuta quasi mai applicabile nella pratica, dimostrando una tendenziale opposizione all’automatismo del riconoscimento in materia di adozione. Gli unici casi in cui tale disciplina viene ritenuta applicabile attengono alle adozioni “totalmente estere”, ossia che non recano elementi di collegamento con l’ordinamento interno.

Al contrario, si ritiene applicabile la norma speciale anche qualora occorra procedere al riconoscimento di decisioni straniere di adozione da parte di genitori che, in possesso della cittadinanza nello Stato di origine del minore, risiedono stabilmente in Italia.

Ciò per due ordini di ragioni principali. Il primo attiene alla verifica della compatibilità degli effetti del provvedimento con l’ordine pubblico e con i principi fondamentali dello Stato. Il secondo, ancor più rilevante, attiene alla tutela del minore e al controllo che la decisione da riconoscere risponda al maggiore interesse di quest’ultimo. Invero, l’esigenza di assicurare un controllo rigoroso sulla compatibilità del provvedimento con l’ordinamento interno, unitamente a quella di evitare che lo strumento del riconoscimento possa prestarsi ad eventuali abusi, induce le Corti ad attribuire la competenza circa il vaglio di compatibilità al Tribunale per i Minorenni. In tal senso, i Giudici sottolineano la portata tendenzialmente generale della competenza di tale Tribunale in materia di adozione di minori, nonché i maggiori strumenti di indagine e di intervento di cui lo stesso dispone a tutela dell’interesse dell’adottando (cfr. Cass. sent. n. 29668/2017).

Si ritiene, pertanto, che il superiore interesse del minore che viene in rilievo in materia di adozioni possa essere maggiormente tutelato dal Tribunale a ciò generalmente preposto (ovvero il Tribunale dei Minori), anche attraverso l’adozione di decisioni che vanno oltre il semplice riconoscimento del provvedimento straniero, quali, ad esempio, la conversione dell’adozione non legittimante in adozione legittimante (ex art. 32 co. 3 l. 184/83).

Infine, la giurisprudenza ritiene l’applicabilità della normativa speciale anche nel caso in cui i genitori non abbiano fatto ricorso alla procedura per l’adozione internazionale, ma al diverso procedimento di adozione in vigore nello Stato di provenienza del minore.