L’affidamento del minore ai Servizi Sociali

Il nostro ordinamento prevede la presenza in ogni territorio dei cosiddetti “Servizi Sociali”.
Cosa si intende innanzitutto per Servizi Sociali?
Partiamo dalla definizione presente sul sito della Treccani: “l’assistenza sociale comprende l’insieme di compiti della pubblica amministrazione consistenti nella fornitura di prestazioni, normalmente gratuite, dirette all’eliminazione delle disuguaglianze economiche e sociali all’interno della società”.

Si tratta quindi di un insieme di attività finalizzate a garantire l’assistenza alle persone in difficoltà, bisognose di cure e di aiuto: famiglie, bambini, anziani, immigrati, soggetti con problemi di tossicodipendenze ecc.

In particolare, l’assistenza sociale si occupa di elaborare misure efficaci per la prevenzione, la riduzione o, nella migliore delle ipotesi, l’eliminazione delle condizioni di disagio, che siano di natura economica o sociale.
Gli interventi si inseriscono in una sfera che riguarda sia la salute fisica che il benessere psicologico, sociale e relazionale; l’obiettivo finale è abilitare gli individui a sviluppare il proprio potenziale.

I servizi sociali operano sulla base di una normativa nazionale, regionale e locale, con la finalità di promuovere la salute, il benessere e l’autonomia dei cittadini.

Tra i compiti del Servizio sociale, nell’ambito della materia minorile, troviamo l’istituto “dell’affidamento del minore ai servizi sociali”: cerchiamo di capire cosa si intende con tale espressione.

Nel nostro ordinamento troviamo quattro tipologie di affidamento del minore ai servizi sociali, previste espressamente da diverse normative, ovvero:

1)Affidamento ai servizi sociali ex art. 25 Legge 835/1935 (legge istitutiva del Tribunale dei Minori) ed ex art. 330-333 codice civile.
L’istituto creato con la Legge che istituì i Tribunali per i Minorenni, nel lontano anno 1935, aveva inizialmente lo scopo di occuparsi dei minori che si trovavano in situazioni di degrado o trascuratezza da parte dei genitori, prevedendone il trasferimento in istituti rieducativi.

Ad oggi questa norma non viene di fatto più applicata e nei procedimenti davanti al Tribunale per i Minori viene invece disposto l’affidamento dei minori al servizio sociale ex art. 330 e seguenti del codice civile, ovvero nei procedimenti che riguardano la “responsabilità genitoriale”, termine introdotto con la Riforma della filiazione del 2013, che sostituisce la precedente espressione di “potestà genitoriale”, rappresentando un concetto più moderno ed in linea con la giurisprudenza europea e con le convenzioni sui Diritti del fanciullo, in quanto mette al centro l’interesse del minore.

Nell’ambito di questi procedimenti i minori possono essere affidati ai servizi sociali quando i comportamenti dei genitori creano un pregiudizio all’interesse dei figli; tale affidamento può comportare il collocamento in una famiglia affidataria, oppure possono essere collocati anche presso la famiglia di origine, o presso uno solo dei genitori, infine presso un parente stretto.

In questi casi, a meno che non sia dichiarata la decadenza dalla responsabilità genitoriale (nel qual caso la stessa verrà esercitata da un Tutore nominato dal Tribunale o dall’altro genitore che non sia stato dichiarato decaduto) o a meno che non venga diversamente indicato nel Decreto del Tribunale, le scelte straordinarie sulla vita dei minori (per tali si intendono quelle che hanno una ricaduta permanente sulla vita dei figli, quali trattamenti chirurgici, neuropsichiatrici, documenti per espatrio, ecc..ecc..) restano di competenza dei genitori biologici.

2) Affidamento ai servizi sociali ex art. 4 Legge 184/1983 (Legge sull’adozione).
La legge sull’adozione prevede che con il consenso dei genitori biologici, o anche in assenza di questo (cosiddetto “affido giudiziario”), il minore venga temporaneamente affidato ad una famiglia affidataria, allorquando lo stesso si trovi in un ambiente non idoneo alla sua serena crescita ed allo scopo di tentare di recuperare la genitorialità dei genitori biologici.

Tale affidamento ha una durata massima di 24 mesi prorogabili e, solo se la situazione apparirà irreversibile, il procedimento potrà sfociare in una dichiarazione di adottabilità.

Nel provvedimento del Tribunale dei Minori verranno date indicazioni sui poteri riconosciuti all’affidatario e sui compiti del servizio sociale.
In particolare, ex art. 5 Legge 184/1983, agli affidatari sono dati i compiti di tenere i rapporti ordinari con la scuola e le autorità sanitarie.

3) Affidamento ai servizi sociali ex art. 337 – ter c.c.
La norma disciplina cosa può fare il Tribunale in caso di conflittualità tra i genitori.
In questo caso la decisione spetta al Tribunale Ordinario che decide in caso di separazione, divorzio o sulle questioni relative all’affidamento e mantenimento dei figli non matrimoniali.

Il Tribunale in questi casi, quando la conflittualità tra i genitori raggiunge livelli talmente elevati da costituire un potenziale pregiudizio per i figli minori, può affidare i figli della coppia ai servizi sociali.

In casi estremamente gravi tale affidamento può anche comportare il collocamento dei minori presso una famiglia affidataria.
Il Tribunale ne stabilirà dettagliatamente le modalità nel provvedimento che lo dispone.

4) Affidamento ai servizi sociali del minore che ha commesso un reato ex art. 28 D.P.R. 448/1988.
Terminiamo la disamina con l’affidamento ai servizi sociali del minore che ha commesso un reato.
La legge sul procedimento penale minorile prevede espressamente che il Giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare se la personalità del minore possa essere recuperata.

Il minore viene quindi affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia che, in collaborazione con i locali servizi sociali, svolgono le opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.

Nel caso in cui il periodo di osservazione si concluda positivamente, il Tribunale per i Minori dichiarerà estinto il reato.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare sul sito la pagina dedicata a Diritti dei Minori.

Figlio non riconosciuto e testimonianza madre

Nelle cause di dichiarazione giudiziale di paternità promosse dal figlio maggiorenne, la madre può essere testimone della relazione sentimentale e sessuale intrattenuta con il presunto padre.

L’art. 269 c.c. stabilisce invero che la prova della paternità può essere data con ogni mezzo. Quindi il Giudice può trarre il proprio convincimento sull’esistenza del rapporto di filiazione da ogni mezzo di prova, comprese le testimonianze de relato, il comportamento processuale delle parti e le risultanze dotate di mero valore indiziario.

Ed infatti, nonostante ad oggi la giurisprudenza ritenga che lo strumento più idoneo a provare la paternità sia la consulenza tecnica genetica, è considerato valido indizio, su cui fondare il convincimento circa la sussistenza del rapporto di filiazione, il rifiuto del padre di sottoporsi al test del DNA (cfr. ex multis Cass. Civ., Sez. I, 21/12/2015 n. 25675).

L’unico limite posto dal Legislatore è quello contenuto nell’ultimo comma dell’art. 269 c.c., che afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.
Tali circostanze, però, ben possono concorrere con gli altri elementi probatori a sostegno del convincimento del Giudice in ordine alla sussistenza della paternità.

Nel processo per dichiarazione giudiziale di paternità promosso dal figlio maggiorenne, quindi, la madre è ritenuta capace di testimoniare e le sue dichiarazioni possono essere utilizzate ai fini della decisione, in concorso con le altre risultanze, anche indiziarie, emerse nel corso del giudizio.

Sul punto, invero, la Suprema Corte ha chiarito che nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, promosso da soggetto maggiorenne, vada esclusa ogni valutazione sulla capacità a testimoniare della madre naturale ai sensi dell’art 246 c.p.c., in quanto la madre non è parte del giudizio (così ex multis Cass. Civ., Sez. I , 17/07/2012, n. 12198).
Nella sopra richiamata sentenza viene infatti precisato che la madre “non può essere litisconsorte necessaria, in quanto legittimato passivo è il solo genitore, (ed in mancanza i suoi eredi) nei confronti del quale si intende accertare la filiazione (Cass. 3143 del 1994, S.U. 21287 del 2005), né legittimata attiva, quando il figlio naturale abbia raggiunto la maggiore età. La corretta configurazione della sua posizione processuale può essere desunta dall’interpretazione coordinata dell’art. 276 c.c. u.c. e art. 269 c.c.. L’art. 276 c.c., u.c., stabilisce che alla domanda può contraddire “chiunque ne abbia interesse”. Secondo l’orientamento di questa sezione (Cass. 8355 del 2007) tale norma prefigura un intervento principale, regolato dall’art. 105, primo comma cod. proc. civ. e non meramente adesivo” (così Cass. Civ., Sez. I , 17/07/2012, n. 12198).

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine del sito dedicate al diritto al risarcimento del figlio non riconosciuto ed ai diritti dei minori.

Nuovo figlio e riduzione del contributo al mantenimento

Nella società attuale, caratterizzata dalla pluralità delle relazioni familiari, capita sempre più spesso che coppie, formate da partner provenienti da precedenti rapporti coniugali o di convivenza, decidano di consolidare il proprio rapporto con la nascita di un nuovo figlio.

Ciò influisce sulle precedenti relazioni familiari della coppia? In particolare: la nascita di un figlio dalla nuova relazione sentimentale può avere qualche rilevanza sul mantenimento del coniuge o dei figli nati dal precedente rapporto?

La giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che la nascita di un figlio da una nuova relazione di coppia possa incidere, senza ovviamente eliderlo, sul contributo al mantenimento corrisposto per i figli nati dal precedente rapporto sentimentale.

A tal proposito la Suprema Corte ha, a più riprese, sancito che “la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, pur non determinando automaticamente una riduzione degli oneri di mantenimento dei figli nati dalla precedente unione, deve essere valutata dal Giudice come circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni originariamente stabilite, in quanto comporta il sorgere di nuovi obblighi di carattere economico” (così ex multis Cass. Civ., Sez. VI-1, ord. 12/07/2016, n. 14175; Cass. Civ., 28/09/2015, n. 19194; Cass. Civ, 11/04/2011, n. 8227).

Può essere, quindi, promossa una richiesta di modifica del contributo al mantenimento dei figli nati dalla precedente relazione, laddove il genitore abbia subito un peggioramento della propria condizione economica, conseguente ai maggiori oneri economici derivanti dalla nascita del nuovo figlio, che renda gravoso l’adempimento degli obblighi di contribuzione precedentemente assunti.

La Corte di Cassazione ha poi stabilito che il predetto criterio debba, evidentemente, riflettersi anche sul contributo al mantenimento del coniuge.

Pertanto, la formazione di una nuova famiglia, diritto inviolabile dell’individuo, per i maggiori oneri economici che comporta a carico della parte, può determinare e giustificare una richiesta di revoca o di diminuzione del contributo al mantenimento corrisposto a favore del precedente coniuge (così Cass. Civ., Sez. I, 13/01/2017, n. 789).

Diritto al risarcimento del danno del figlio non riconosciuto

Il diritto al risarcimento del danno del figlio non riconosciuto

La sentenza n. 697/2019, con cui la Corte d’Appello di Bologna, in materia di dichiarazione giudiziale di paternità, ha confermato il diritto della figlia al risarcimento del danno non patrimoniale subito in conseguenza del mancato riconoscimento da parte del padre e dell’assenza di un solido rapporto con quest’ultimo.

Nel caso esaminato dalla Corte d’Appello di Bologna il diritto della figlia al risarcimento del danno nasceva proprio dalla privazione della figura paterna che il padre le aveva inflitto.

Si è infatti accertato che il genitore, pur consapevole del rapporto di filiazione, non si è mai comportato da padre né in privato né nella sfera sociale, cagionando dunque nella figlia una grave sofferenza per la consapevolezza di non essere stata desiderata ed accolta come tale.

La Corte d’Appello di Bologna ha, dunque, confermato l’orientamento già espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 26205/2013, in cui si è affermata l’esistenza di un “automatismo tra procreazione e responsabilità genitoriale, declinata secondo gli obblighi specificati negli artt. 147 e 148 c.c., che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore”.

Con la successiva sentenza n. 3079/2015, la Corte di Cassazione ha altresì sancito che “il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione – oltre che nelle norme di natura internazionale recepito nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole

In sintesi, per effetto della semplice procreazione il figlio acquisisce il diritto di essere mantenuto ed educato dai propri genitori e di condividere con gli stessi la relazione filiale, sia nella sfera privata ed affettiva, sia in ambito sociale. Ciò a prescindere dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale di paternità.

La violazione di tale diritto da parte del genitore costituisce quindi un grave inadempimento agli obblighi sanciti dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo del 1989.

A tale inadempimento consegue, pertanto, il diritto del figlio al risarcimento del danno, quando il comportamento del genitore abbia determinato un vuoto affettivo e sociale nel figlio.

In allegato il testo integrale della sentenza. E’ inoltre consultabile il nostro approfondimento Figlio non riconosciuto e testimonianza della madre, nonchè l’area tematica Diritto dei minori.

Genitore pubblica on line le foto del figlio

Cosa succede al genitore che pubblica on line le foto del figlio

Cosa accade al genitore che pubblica online le foto del figlio minorenne?
Postare sul web le fotografie dei propri figli ritratti nelle normali attività di vita quotidiana è comportamento ormai diffuso tra i “genitori dell’era digitale”.

L’opinione pubblica si sta però interrogando sulla correttezza di tale abitudine.

La polemica è in particolare scoppiata sul web dopo la nascita di Leone Lucia, il figlio del rapper Fedez e della blogger Chiara Ferragni. I genitori hanno infatti, da subito, iniziato a pubblicare sui social network, come Facebook o Instagram, le foto del bambino.

Il fenomeno, così diffuso, che tanto sta facendo parlare il popolo di Internet è approdato anche nelle aule dei nostri Tribunali, chiamati a valutare l’opportunità di tali comportamenti e gli eventuali rischi e pregiudizi che possono da essi derivare al minore.

A tal proposito vengono in rilievo l’art. 10 c.c., che tutela il diritto all’immagine, in particolare l’abuso dell’immagine altrui, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che appresta a quest’ultimo tutela da interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nonché il nuovo Regolamento Europeo n. 679/2016, in materia di protezione dei dati personali, il cui art. 8 ricomprende nella definizione di dato personale l’immagine fotografica, affermando altresì che la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata.

Molti genitori si sono, quindi, rivolti all’Autorità Giudiziaria per ottenere, ai sensi dell’art. 10 c.c., una pronuncia di cessazione dell’abuso (cd. inibitoria), ritenendo che la pubblicazione delle immagini dei propri figli per opera dell’altro genitore costituisca pregiudizio al decoro o alla reputazione del minore.

I Tribunali hanno avuto così modo di precisare che, prescindendo dal consenso di entrambi i genitori, requisito comunque necessario alla legittima pubblicazione delle foto del figlio, l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce un intrinseco pericolo per il minore stesso (così ad esempio Tribunale di Mantova, decreto del 20/09/2017).

Ciò, invero, determinando la diffusione di immagini fra un numero non controllabile di persone, potrebbe esporre il bambino al rischio di contatto con soggetto malintenzionati o di quanti utilizzano le foto di minori reperite online per trarne materiale pedopornografico, mediante procedimenti di fotomontaggio, come più volte segnalato dagli organi di Polizia.

Il pericolo è intrinseco nella pubblicazione dell’immagine stessa e l’inibitoria e l’eventuale rimozione dei contenuti è da valutarsi a seconda del caso concreto.

Per non parlare della possibilità per il minore, in futuro, di promuovere un’azione di risarcimento del danno nei confronti dei genitori, tema di cui ci occuperemo nei prossimi approfondimenti.

Per approfondire il tema è consultabile sul sito la pagina dedicata ai Diritti dei minori.

Diritto all'anonimato della madre

Diritto all’anonimato della madre e diritto del figlio di conoscere le proprie origini

Il diritto all’oblio è un diritto fondamentale della persona e, in particolare, costituisce espressione di quel fenomeno conosciuto dai giuristi come emersione di “nuovi diritti”. Infatti, il diritto all’oblio rappresenta una specificazione del diritto fondamentale alla riservatezza e all’identità personale, riconosciuto e garantito dalla Costituzione, la cui esigenza di tutela è emersa nell’ultimo ventennio a seguito del progresso e dell’evoluzione sociale e tecnologica, nonché dell’apertura dell’ordinamento interno alle fonti sovranazionali, le quali talvolta introducono nuovi diritti, talaltra conferiscono nuova connotazione ai diritti fondamentali già presenti nel nostro sistema interno.

In relazione al diritto all’oblio, conosciuto anche come “diritto ad essere dimenticati”, una delle principali questioni che ha raggiunto le aule di giustizia attiene al diritto della madre naturale a mantenere l’anonimato a seguito del parto, a cui si contrappone, specie in tempi recenti, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini. Anche quest’ultimo, invero, costituisce espressione di un diritto fondamentale della persona, segnatamente, del diritto all’identità personale, al pieno sviluppo ed estrinsecazione della persona, nonché del diritto del minore ad avere una famiglia.

Trattandosi di due diritti di pari rango, peraltro inerenti la sfera della personalità, al legislatore ed alla giurisprudenza è rimesso il compito di operare un bilanciamento e rinvenire un punto di equilibrio, laddove possa raggiungersi un’adeguata tutela dell’uno, con il minor corrispondente sacrificio dell’altro.

A tal proposito, il legislatore, intervenuto con la legge n. 184/1983 in materia di adozione e affidamento dei minori, optava per la massima tutela della riservatezza della madre, considerando il diritto di quest’ultima prevalente, in particolare, al fine di garantire la possibilità di partorire in strutture adeguate, mantenendo l’anonimato, a donne la cui condizione personale, sociale od economica non avrebbe consentito loro di tenere con sé il bambino. In tal senso, attraverso la tutela della madre, il legislatore intendeva perseguire un obiettivo di garanzia trascendente il singolo e operante su un piano di utilità sociale, quello della protezione delle nascite, dello sviluppo e della tutela della salute della gestante e della prole.
Invero, l’art. 28 della l. 184/1983 prevede la possibilità per figlio adottivo, compiuto il venticinquesimo anno di età, di accedere alle informazioni riguardanti le proprie informazioni biologiche, salvo che egli non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale o che alcuno dei genitori biologici “abbia dichiarato di non voler essere nominato o abbia prestato in consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo”. Pertanto, la scelta compiuta dal legislatore si rivolge alla tutela dell’anonimato della madre, non prevedendo neppure alcuno strumento volto a verificare l’attualità e la persistenza di una volontà in tal senso. Attraverso l’irrevocabilità della scelta, infatti, si garantisce, da un lato, costante tutela alla madre, anche a distanza di anni dal parto, dall’altro, il diritto del figlio a non subire in futuro intrusioni nella proprie sfera personale da parte della madre in ipotesi di ripensamento.

Tuttavia, la scelta del legislatore, reputata legittima dalla Corte Costituzionale nel 2005, è stata rimessa in discussione da parte della Corte EDU nel 2012, quando la Corte dei diritti ha affermato che la legislazione italiana non tenta in realtà di operare alcun bilanciamento tra i fondamentali diritti che vengono in rilievo, optando, al contrario, per un’assoluta a cieca preferenza per gli interessi della madre. In tal senso, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 8 CEDU.

Sulla scorta di tale decisione, la Corte Costituzionale, nuovamente invitata a pronunciarsi, ha dichiarato, con sentenza n. 278/2013, la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 28 co. 7 l. 184/83, “nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396” a seguito della richiesta del figlio di conoscere le proprie origini, al fine di verificare la persistenza e l’attualità della scelta dell’anonimato compiuta all’atto del parto. Nella medesima pronuncia, la Corte ha invitato il legislatore ad intervenire, colmando la alcuna normativa venutasi a creare.

Nonostante ciò, l’inerzia del potere legislativo perdura tutt’oggi, sicché è la giurisprudenza ad occuparsi della questione, nel tentativo di delinearne i delicati confini.

In particolare, le Sezioni Unite hanno affermato che “in tema di parto anonimo, per effetto della sentenza delle Corte cost. n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte suddetta, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità” (così Sez. Un. sent. n. 1946/2017).

Ulteriori pronunce della Suprema Corte, poi, proseguono nell’opera ermeneutica, in attesa dell’intervento legislativo, al fine di definire l’attuale sistema di tutele e conferire ad esso tratti sempre più chiari e certi.
Con la sentenza n. 3004 del 2018, i Giudici di legittimità hanno affermato che “nel caso di c.d. parto anonimo, sussiste il diritto del figlio, dopo la morte della madre, di conoscere le proprie origini biologiche mediante accesso alle informazioni relative all’identità personale della stessa, non potendosi considerare operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine, previsto dall’art. 93, comma 2, del D.Lgs. n. 196 del 2003, di cento anni dalla formazione del documento”. Invero, afferma la Corte, una diversa soluzione determinerebbe un’inaccettabile compromissione del diritto fondamentale del figlio, in contrasto con la necessaria reversibilità del segreto.

Ancora, più di recente, con la pronuncia n. 6963 del 2018, la Cassazione ha affermato che “l’adottato ha diritto, nei casi di cui all’art. 28, comma 5, della l. n. 184 del 1983, di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quelle delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”.