I diritti dei conviventi

La Legge 20/05/2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), che ha introdotto nel nostro Paese le Unioni Civili tra persone dello stesso sesso, ha anche previsto una regolamentazione della convivenza di fatto, istituto che può riguardare sia coppie eterosessuali sia coppie omosessuali.

Al comma 36, dell’art. 1 (unico articolo di cui si compone la legge) della sopra richiamata disposizione, viene infatti definito il concetto di convivenza di fatto, con cui si intendono “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio, o da un’unione civile”.

Il successivo comma 37 stabilisce, poi, che per l’accertamento della stabile convivenza, necessaria ai fini del riconoscimento dei diritti scaturenti dalla Legge Cirinnà, si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 d.p.r. 223/1989 (“Famiglia Anagrafica. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. Una famiglia anagrafica può essere composta da una sola persona”) e alla lettera b) dell’art. 13 d.p.r. 223/1989 (“Dichiarazioni anagrafiche. Le dichiarazioni anagrafiche da rendersi dai responsabili di cui all’art. 6 del presente regolamento concernono i seguenti fatti: b) costituzione di una nuova famiglia o di una nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza”).

In sintesi, per poter provare di avere i requisiti per beneficiare delle tutele previste a favore dei conviventi dalla Legge Cirinnà, occorrerà effettuare all’Anagrafe del Comune di residenza la dichiarazione che la convivenza avviene per ragioni affettive.

In ragione del dettato letterale della norma, va escluso che la convivenza intrapresa da persone separate, ancora legate da un precedente vincolo matrimoniale, possa ricadere nell’ambito della disciplina in oggetto.

La Legge in oggetto prevede, quindi, una serie di tutele per i conviventi di fatto, che però, per la natura stessa del rapporto, non assumono alcun obbligo giuridico reciproco, a differenza di quanto avviene per il matrimonio o l’unione civile.

Esaminiamo ora le tutele riconosciute dalla Legge Cirinnà ai conviventi:

  • in materia di ordinamento penitenziario: vengono riconosciuti ai conviventi di fatto gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario.
    La legge sull’ordinamento penitenziario stabilisce invero che va agevolata la conservazione dei rapporti familiari del detenuto, favorendo il contatto diretto dell’internato con i propri familiari.
  • in materia di assistenza sanitaria: in caso di malattia o di ricovero, i conviventi hanno diritto reciproco di visita, assistenza ed accesso alle informazioni personali.
    Inoltre ciascun convivente può designare l’altro quale rappresentante, con poteri pieni o limitati, per l’assunzione di decisioni in materia di salute, anche in caso di malattia che comporta perdita della capacità di intendere e di volere, oppure, in caso di morte, per l’assunzione delle decisioni relative alle esequie o all’espianto degli organi.
    Tale designazione deve avvenire in forma scritta e autografa oppure, in caso di incapacità a redigerla, alla presenza di un testimone.
  • in materia abitativa: in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il partner può continuare ad abitare nella stessa per due anni o per la durata della convivenza, se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
    Nel caso in cui con il convivente superstite coabitino anche figli minori o disabili, tale diritto viene previsto per un periodo non inferiore a tre anni.
    La predetta tutela viene meno laddove il partner superstite cessi di abitare stabilmente nella casa, oppure contragga matrimonio, unione civile o nuova convivenza di fatto.
    Nel caso, infine, di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione, il convivente di fatto ha diritto di succedergli nel contratto di locazione.
  • in materia di graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare: le coppie di fatto possono godere, a parità di condizione con altri nuclei familiari, di un titolo di preferenza ai fini dell’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
  • in materia di impresa familiare: la Legge Cirinnà ha previsto l’introduzione nel codice civile dell’art. 230 ter c.c..
    Tale disposizione riconosce al convivente, che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro, il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata all’entità del lavoro prestato.
  • in materia di interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno: il convivente di fatto viene inserito tra i soggetti che devono essere indicati, ai sensi dell’art. 712 c.p.c., nella domanda di interdizione o inabilitazione del partner.
    Viene inoltre riconosciuta al convivente la facoltà di essere nominato tutore, curatore o amministrazione di sostegno del partner dichiarato interdetto, inabilitato o sottoposto ad amministrazione di sostegno.
  • in materia di risarcimento del danno: in caso di morte del convivente conseguente al fatto illecito del terzo, ad esempio in caso di infortunio sul lavoro o incidente stradale, al convivente spetta lo stesso risarcimento del danno che sarebbe spettato al coniuge.
  • contratti di convivenza: i conviventi di fatto possono, infine, stipulare contratti di convivenza, per regolare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune.

Alla luce, quindi, della nuova disciplina introdotta per le unioni civili e le convivenze di fatto dalla Legge 76/2016, è importante che le coppie, anche attraverso l’assistenza e la consulenza di un professionista del settore, vengano rese edotte delle possibilità e delle tutele riconosciute dal nostro ordinamento, al fine di scegliere consapevolmente quale regime familiare adottare per il loro rapporto.

Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?

Quale legge si applica alla separazione e al divorzio che presentano elementi di internazionalità?

Il Giudice, chiamato a pronunciarsi sul divorzio di coniugi extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, quale legge deve applicare allo scioglimento del matrimonio? Ed, in particolare, è possibile per il Giudice italiano applicare la legge di uno Stato diverso?

Tali interrogativi possono avere risvolti pratici molto significativi.
Si pensi, ad esempio, alla possibilità di applicare la legge di uno Stato che riconosce, al contrario del nostro ordinamento, il divorzio immediato, senza alcun preventivo periodo di separazione.

In Italia, la normativa di riferimento in materia di legge applicabile alla separazione e al divorzio che presentano elementi di estraneità è costituita dal Regolamento UE 1259/2010, cd. Roma III relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale”.

Tale Regolamento, che nasce con l’obiettivo di uniformare la disciplina dei singoli Stati partecipanti, attribuisce particolare rilievo all’autonomia ed alla volontà dei coniugi nella determinazione della legge applicabile al loro divorzio.

Il criterio di elezione per stabilire quale legge applicare al divorzio è infatti rappresentato dalla “scelta della parti”.
L’art. 5 del Regolamento Roma III stabilisce, invero, che i coniugi possono designare di comune accordo la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, purché si tratti:
a) della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi (sulla nozione di “residenza abituale “, cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?”) al momento della conclusione dell’accordo, o
b) della legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora al momento della conclusione dell’accordo, o
c) della legge dello Stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo, o
d) della legge del foro (ovvero della legge dello Stato di cui cui viene adita l’autorità giurisdizionale).

Nell’ambito di tale elenco, tassativamente predeterminato dal Regolamento, le parti hanno quindi la possibilità di accordarsi sulla legge che verrà applicata al loro divorzio, prediligendo quella che meglio si adatta alle loro esigenze.

E’, quindi, di primaria importanza che i coniugi, al momento della scelta della legge applicabile al loro divorzio, siano correttamente informati dal loro difensore sugli aspetti essenziali delle diverse leggi nazionali applicabili al caso specifico, al fine di poter operare al meglio una scelta consapevole ed informata, a tutela dei propri interessi e nel rispetto della normativa vigente.

Le disposizioni di cui al richiamato Regolamento hanno peraltro carattere universale, ovvero, non solo si applicano a prescindere dalla nazionalità dei coniugi, ma consentono agli stessi di poter indicare anche la legge di uno Stato non appartenente all’Unione Europea o non aderente al Regolamento, purché nell’ambito del tassativo elenco sopra specificato.

Ad esempio, il Tribunale di Padova, con sentenza del 8/09/2017, a fronte della domanda congiunta di divorzio promossa da due coniugi marocchini, ha ritenuto, sulla base dell’accordo raggiunto dalle parti, di poter applicare al caso concreto la legge del Marocco.
Ciò, ha consentito ai coniugi di poter ottenere il divorzio immediato, previsto dalla legislazione marocchina, senza alcuna preventiva separazione.

Infatti, come ormai pacificamente sancito dalla giurisprudenza anche in materia di riconoscimento delle sentenze straniere di divorzio, la circostanza che il nostro ordinamento imponga la preventiva pronuncia della separazione, non osta all’applicazione della disposizione straniera che preveda il divorzio immediato.
La concessione, in tali casi, del divorzio immediato non contrasta invero con alcun principio di ordine pubblico, purché il Giudice compia un rigoroso accertamento, nel rispetto del diritto di difesa delle parti, sull’esistenza di un irrimediabile disfacimento della comunione di vita e di affetti tra i coniugi (così ex multis Cass. Civ. 25/07/2006, n. 16978 e Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).

Così, ad esempio, il Tribunale di Parma, nel caso di due coniugi, l’uno di nazionalità italiana l’altro spagnola, che avevano designato la legge spagnola quale legge applicabile al rapporto, ha pronunciato, ai sensi del Codice Civile spagnolo, il divorzio, senza preventiva separazione (così Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).
Ed ancora, il Tribunale di Belluno, nel caso di due cittadini albanesi, coniugati in Albania ma stabilmente residenti in Italia, come concordemente richiesto dalle parti, ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio secondo la legge albanese, che consente, su base consensuale, la pronuncia immediata di divorzio (così Tribunale di Belluno, sentenza 27/10/2016).

Occorre, però, precisare in che termini e con quale forma debba essere espressa la scelta della legge applicabile.

Per quanto riguarda il termine, l’art. 5 del Regolamento Roma III prevede che l’accordo con cui i coniugi designano la legge applicabile al loro divorzio possa essere concluso e modificato in qualsiasi momento, ma al più tardi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale, salvo che la legge del foro stabilisca che i coniugi possono formulare tale designazione anche nel corso del procedimento avanti al giudice.

Sul punto la nostra giurisprudenza ha chiarito che, oltre agli accordi intervenuti prima della domanda giudiziale, sono ritenuti validi anche gli accordi effettuati in corso di causa, ed in particolare fino al momento in cui è possibile per le parti integrare le proprie domande, ovvero fino alle memorie integrative di cui all’art. 709 c.p.c., comma 3 c.p.c., e di cui art. 4, comma 10, della legge sul divorzio (così Tribunale di Milano 10/02/2014 e Tribunale di Belluno 27/10/2016).

Con riferimento, invece, ai requisiti di forma, l’art. 7 del Regolamento Roma III stabilisce che è sufficiente che l’accordo delle parti sia redatto per iscritto, datato e firmato da entrambi i coniugi, salvo che la legge dello Stato membro non preveda requisiti di forma supplementari per tali accordi.

A tal proposito, l’ordinamento italiano non prevede ulteriori requisiti di forma rispetto alla forma scritta. Ed infatti sono state ritenute valide anche le semplici scritture private, senza necessaria trascrizione in atto pubblico, e gli accordi raggiunti anche non contestualmente o raccolti in documenti separati.

Cosa succede, però, quando i coniugi non effettuano alcuna valida scelta sulla legge applicabile, perché, ad esempio, sono in disaccordo sulla legge da designare o perché uno dei due è rimasto contumace?

In tali circostanze è l’art. 8 del Regolamento Roma III a stabilire una serie di criteri, con un preciso ordine gerarchico, volti ad individuare la legge applicabile alla separazione e al divorzio.

In particolare, in mancanza di una scelta operata dalle parti, il divorzio e la separazione sono disciplinati:
a) dalla legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi nel momento in cui è adita l’autorità giudiziaria, o in mancanza
b) dalla legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi, sempre che tale periodo non si sia concluso più di un anno prima che fosse adita l’autorità giurisdizionale, se uno dei coniugi vi risiede ancora nel momento in cui viene adita l’autorità giurisdizionale, o in mancanza
c) dalla legge dello Stato di cui i coniugi sono cittadini nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale (legge di comune cittadinanza dei coniugi), o in mancanza
d) dalla legge dello Stato in cui è adita l’autorità giurisdizionale (lex fori).

Nel caso di una coppia di coniugi stranieri, entrambi residenti in Italia, troverà, quindi, applicazione la legge italiana.

Sul punto, ad esempio, il Tribunale di Mantova, chiamato a pronunciarsi sul ricorso per lo scioglimento del matrimonio, promosso da una cittadina cinese contro il coniuge di medesima nazionalità rimasto contumace, ha senza dubbio stabilito la piena applicabilità della normativa italiana, in virtù di quanto previsto dal Regolamento UE n. 1259/2010 (così Tribunale di Mantova, sentenza 24/02/2016).

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare la pagina dedicata a Separazione e Divorzio.

Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?

Nella società attuale è frequente che a dissolversi siano matrimoni che presentano elementi di internazionalità, ovvero famiglie in cui uno od entrambi i coniugi sono cittadini extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, oppure famiglie composte da cittadini italiani ma residenti all’Estero, oppure ancora matrimoni contratti in Paesi esteri.

Per affrontare correttamente la separazione ed il divorzio di tali unioni, il giurista deve porsi due domande preliminari: l’una relativa alla legge applicabile al caso concreto (cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?”), e l’altra relativa alla giurisdizione, ovvero se il giudice italiano abbia la competenza giurisdizionale a decidere sulla dissoluzione di tale nucleo familiare.

Ogni vertenza familiare comporta, poi, una molteplicità di domande che affiancano quella di separazione o di divorzio, come le questioni attinenti alla prole, al mantenimento del coniuge o all’addebito della separazione.
Ebbene, in materia di giurisdizione, tali domande, seppur presentate congiuntamente e scaturenti da una medesima situazione di fatto, devono essere esaminate separatamente, in quanto ognuno dei predetti aspetti soggiace ad una diversa disciplina legislativa.

In materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio, la giurisdizione viene determinata sulla base dell’art. 3 del Regolamento CE n. 2201/2003, c.d. Bruxelles II bis, le cui disposizioni trovano applicazione indipendentemente dalla cittadinanza europea delle parti e prevalgono sulle norme di diritto internazionale privato (così, sul punto, sentenza Corte di Giustizia Europea 29/11/2007 caso Sundelind Lopez).
Invero, solo laddove il caso concreto non trovi un collegamento con alcuno dei criteri individuati dal predetto Regolamento, potrà farsi richiamo alla legge sul diritto internazionale privato (Legge 218/1995).

Ai fini dell’individuazione della giurisdizione, l’Art. 3 del predetto Regolamento prevede una serie di criteri, tra loro alternativi, sostanzialmente vertenti sul concetto di “residenza abituale”.

Vi sarà, quindi, competenza del giudice italiano, oltre che per i coniugi con cittadinanza italiana (art. 3, comma 1, lett. b Reg. CE 2201/2003), anche nel caso di soggetti di cittadinanza diversa se in territorio italiano si trova la residenza abituale dei coniugi oppure l’ultima residenza abituale dei coniugi, se uno di essi vi risiede ancora, oppure la residenza abituale del convenuto oppure, in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei due coniugi oppure la residenza abituale dell’attore, se vi ha risieduto per un anno immediatamente prima della domanda o sei mesi, nel caso in cui l’attore sia anche cittadino italiano (art. 3, comma 1, lett. a) Reg. CE 2201/2003).

Anche l’art. 8 del sopra citato Regolamento, che regola la competenza a decidere sulle questioni relative a responsabilità genitoriale ed affidamento della prole verte essenzialmente sul concetto di “residenza abituale”, ma questa volta con esclusivo riferimento al minore.
Quindi, tutte le questioni relative ad un minore abitualmente residente in Italia dovranno essere decise dal giudice italiano.

Con riferimento all’eventuale richiesta di addebito della separazione, occorre precisare che, mentre l’orientamento maggioritario, ritenendo la richiesta di addebito inscindibile ed accessoria alla pronuncia di separazione, ne concentra la giurisdizione in capo al medesimo giudice competente in virtù del Regolamento Bruxelles II bis (così Tribunale di Roma 5/06/2015 e Tribunale di Belluno 13/06/2017), altra parte della giurisprudenza ritiene tale domanda estranea all’ambito di applicazione del predetto provvedimento e riconducibile invece, per quanto attiene la determinazione della giurisdizione, all’alveo del Regolamento UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (così Tribunale di Tivoli).

Per quanto riguarda, infine, le obbligazioni alimentari o di mantenimento, sia del coniuge che dei figli, ai fini della determinazione del giudice competente assume rilievo il Regolamento CE n. 4/2009, che come il Bruxelles II bis, trova applicazione anche alle ipotesi di soggetti extracomunitari e prevale sulle norme di diritto internazionale privato.

In particolare l’art. 3 del predetto Regolamento, che disciplina la competenza generale, stabilisce al comma 1, lettere a) e b) due criteri alternativi di giurisdizione, relativi rispettivamente al luogo di “residenza abituale” del convenuto ed al luogo di “residenza abituale” del creditore, oppure alle successive lettere c) e d) del medesimo comma prevede un criterio di concentrazione della giurisdizione, qualora la causa di mantenimento risulti accessoria rispetto ad una causa sullo stato delle persone o ad un procedimento relativo alla responsabilità genitoriale.

In sintesi, su tali questioni, vi sarà competenza del giudice italiano, quando la domanda di mantenimento risulti accessoria ad una domanda di separazione, divorzio o di affido di minore pendente avanti al medesimo giudice, ovvero quando siano situate sul territorio italiano la residenza abituale del debitore o del creditore.

Vista la rilevanza attribuita dalla normativa sopra richiamata al concetto di “residenza abituale”, può essere utile, in conclusione, ricostruire come la giurisprudenza italiana abbia interpretato tale nozione, sulla base del diritto internazionale e dell’Unione Europea.

A tal proposito la Corte di Cassazione ha chiarito che per “residenza abituale” dei coniugi non si fa riferimento al dato della residenza anagrafica o formale ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa (cosi Cass. Civ., Sezioni Unite, 17/02/2010, n. 6380), e per “residenza abituale” del minore deve intendersi, a prescindere dalla residenza anagrafica, “il luogo in cui il minore trova e riconosce, anche grazie ad una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione” (così Cass. Civ., Sezioni Unite, 30/03/2018, n. 8042).

Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare la pagina del sito dedicata a Separazione e Divorzio.

Valore delle conversazioni whatsapp nel processo

Quale valore hanno le conversazioni what’s app nel processo

Quale valore hanno le conversazioni What’s app nell’ambito del processo? Possono essere utilizzate come prova?

Queste domande stanno impegnando da qualche tempo gli operatori del diritto e le aule di giustizia, in ragione del fondamentale ruolo che la tecnologia riveste nella quotidianità di ognuno.

Infatti, la recente dirompente evoluzione tecnologica ha fatto sì che le applicazioni di messaggistica istantanea — prima tra tutte What’s app, ma tra queste possono annoverarsi anche Facebook, Signal, Viber e molte altre — siano diventate il mezzo primario di comunicazione. Queste applicazioni vengono oggi utilizzate principalmente per scopi privati, ma a volte sono impiegate anche nei rapporti professionali o per creare chat di lavoro.

Per questo motivo, accade spesso che conversazioni intrattenute mediante strumenti di messaggistica istantanea assumano un ruolo rilevante anche ai fini di giustizia, sia in ambito civile che penale, e che risulti importante poterle utilizzare nell’ambito dei processi.
Si è così posto il quesito di come qualificare tali conversazioni ai fini processuali e, conseguentemente, di identificarne il relativo regime probatorio.

Le chat di What’s app rientrano nella definizione di prova documentale e soggiacciono, quanto al processo civile, al disposto di cui all’art. 2712 c.c., secondo cui le riproduzioni fotografiche e informatiche formano piena prova nel giudizio dei fatti o delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.

Anche in ambito penale, la Cassazione ha chiarito che le conversazioni What’s app devono inquadrarsi nell’ambito della prova documentale di cui è consentita l’acquisizione in giudizio ex art. 234 c.p.p. La Suprema Corte ha, infatti, escluso che si tratti di intercettazioni telefoniche (art. 266 c.p.p.), né di sequestro di corrispondenza (art. 254 c.p.p.), in quanto, una volta che tali conversazioni sono state “archiviate” sul dispositivo, non si tratta più né di un flusso di conversazioni in corso, né di corrispondenza, che implica una spedizione o una ricezione in atto da parte del mittente (tra le altre, Cass. sent. n. 1822/2018). Piuttosto, si è in presenza di un dato giacente nella memoria del cellulare.

Una volta chiarito il valore di prova documentale delle conversazioni intrattenute tramite strumenti di messaggistica istantanea, l’attenzione va focalizzata sulle modalità attraverso cui far entrare tali prove nel giudizio, affinché le stesse risultino utilizzabili ai fini della decisione. In particolare, la questione attiene all’attendibilità della prova. Infatti, una delle problematiche più ricorrenti con riguardo alle prove informatiche attiene alla loro affidabilità, stante la facilità di manipolazione a cui le stesse sono soggette e la questione si pone, nello specifico, quando vengono prodotte in giudizio trascrizioni o riproduzioni delle originali conversazioni.

Quanto al processo civile, alla luce del principio di non contestazione e del disposto di cui all’art. 2712 c.c., l’orientamento della giurisprudenza è quello di valorizzare l’utilizzabilità e l’attendibilità della prova fornita fino a quando la sua fedeltà all’originale non sia disconosciuta dalla parte contro cui la stessa è utilizzata.

Così, ad esempio, è stato reputato valido il licenziamento intimato tramite What’s app, (ritenendo, peraltro, assolto l’onere dell’intimazione per iscritto), posto che il destinatario, nei 60 giorni successivi, aveva inviato la lettera di contestazione, così da non porre dubbi circa l’effettiva ricezione del messaggio (Trib. Catania, ordinanza 27.06.2017). O, ancora, i messaggi inviati in una chat what’s app formata tra colleghi di lavoro sono stati assunti come prova del danno all’attività lavorativa e all’immagine del datore di lavoro, trattandosi di messaggi non contestati dalla parte (Trib Milano, sent. 30.5.2017).

Quando, invece, le trascrizioni dei messaggi What’s app divengano oggetto di contestazione, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che l’utilizzabilità delle trascrizioni prodotte è condizionata all’acquisizione del supposto informatico, al fine di verificarne la paternità e l’affidabilità di quanto in esse contenuto (Cass. pen. sent. n. 49016/2017, Trib. Milano, sez. lavoro, 24.10.2017 ).

L’acquisizione del dispositivo diviene ancora più centrale e necessaria nell’ambito del processo penale, ove la prova è più rigorosa e l’accertamento della responsabilità si esige oltre ogni ragionevole dubbio.

Di talché, la Cassazione ritiene che le trascrizioni o le riproduzioni fonografiche di conversazioni what’s app siano utilizzabili soltanto ove ne sia accertata la conformità all’originale, mediante acquisizione del relativo supporto.

Inoltre, considerata la difficoltà riscontrabile nel depositare il dispositivo in originale, è possibile valutare il deposito della cd. “copia forense”, una relazione tecnico-informatica eseguita da un perito, mediante la quale si estrapola una copia digitale del dispositivo, con indicazione della metodologia utilizzata per la sua formazione, onde garantire l’assenza di alterazioni o manipolazioni (v. l. 48/2008 di recepimento della Convenzione di Budapest 2001 sulla criminalità informatica, che prescrive, nell’estrapolazione dei dati, l’adozione di misure tecniche atte ad assicurare la conservazione degli originali e ad impedirne l’alterazione).

Validità delle clausole claims made

La validità delle clausole claims made

Nell’ambito dei contratti assicurativi ed, in particolare, nei contratti di assicurazione per la responsabilità civile, la validità delle clausole cd. “claims made” (o “a richiesta fatta”) ha occupato il dibattito giurisprudenziale degli ultimi anni, approdando a ben due pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, rispettivamente, la sentenza n. 9140 del 2016 e la sentenza n. 22437 del 2018.

Le clausole claims made costituiscono una particolare tipologia di clausole inserite sempre più di frequente nell’ambito dei contratti assicurativi della responsabilità civile, atte a modificare il funzionamento della relativa copertura e, dunque, l’operatività della polizza stipulata. In particolare, si tratta di pattuizioni che specificano il rischio garantito dal contratto di assicurazione, vincolando la copertura assicurativa ai sinistri denunciati nel periodo di vigenza della polizza.

Pertanto, in deroga al normale modello di assicurazione delineato dall’art. 1917 c.c., l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi debba pagare a un terzo in conseguenza non delle condotte generatrici di domande risarcitorie insorte durante il periodo di vigenza del contratto (modello cd. “loss occurence”), ma in relazione alle richieste pervenute all’assicurazione nel medesimo arco temporale.

Nella prassi si usa distinguere, pur senza pretese di esaustività, considerato il variegato scenario applicativo, tra clausole cd. “pure” e clausole “impure” o miste.

Le prime si caratterizzano per subordinare l’obbligazione risarcitoria al solo fatto che la relativa richiesta sia pervenuta nel periodo di vigenza della polizza, indipendentemente dal momento in cui è stata posta in essere la condotta dannosa, mentre le seconde ancorano il risarcimento al fatto che tanto la richiesta quanto il danno intervengano nel periodo di efficacia del contratto, talvolta con possibile retrodatazione della garanzia a condotte poste in essere in un arco temporale precedente, individuato dal contratto stesso.

A queste due ipotesi si affiancano poi variegate declinazioni pratiche, quali l’estensione della copertura assicurativa ad un arco temporale successivo alla scadenza (cd. “sunset clause” o clausola di ultrattività) o la possibilità per l’assicurato di comunicare all’assicurazione, ai fini dell’operatività della polizza, le circostanze conosciute in corso di contratto dalle quali potrebbe, in futuro, originare la richiesta (cd. “deeming clause”).

Il primo problema sorto in relazione alla validità delle clausole claims made attiene alla possibilità per le parti di assicurare circostanze diverse rispetto al sinistro come comunemente inteso, ossia la condotta dannosa da cui origina l’obbligazione risarcitoria.

Orbene, confutando la tesi di quanti ritengono che le parti non possano assicurare rischi diversi rispetto alla commissione di un illecito dell’assicurato, le Sezioni Unite, in entrambe le pronunce richiamate, accolgono una nozione di sinistro assicurabile a concretizzazione progressiva, che non si esaurisce nella sola condotta materiale, bensì è completato dalla manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento. Sicché, argomenta la giurisprudenza, la concretizzazione del rischio astratto assicurato, specie per i danni lungolatenti, non sempre può identificarsi con la condotta dannosa, ma ricorrono ipotesi in cui la minaccia dell’impoverimento patrimoniale del danneggiato si manifesta in un momento successivo, nella specie, quello della richiesta risarcitoria inoltrata dal danneggiato.

A ciò consegue altresì la validità delle clausole che assicurano il rischio pregresso, nella misura in cui tale rischio, al momento della stipula della polizza, sia ignoto all’assicurato, sicché resti impregiudicata la relativa alea. Invero, dicono le Sezioni Unite, le clausole claims made con garanzia pregressa sono valide perché afferiscono ad un solo elemento del rischio garantito, quello della condotta colposa già avveratasi, restando aleatoria la verificazione dell’altro elemento, quello della minaccia di impoverimento del patrimonio dell’assicurato a seguito della richiesta inoltrata dal danneggiato.

La concezione di rischio a verificazione progressiva conduce, poi, la giurisprudenza a risolvere positivamente un secondo quesito inerente la validità delle clausole claims made. In particolare, la Suprema Corte afferma, in entrambe le pronunce, la natura non vessatoria di tali clausole, con conseguente inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 1341 c.c., affermando che le stesse devono ritenersi limitative non della responsabilità dell’assicuratore — e solo in tale ipotesi sarebbero vessatorie — ma dell’oggetto del contratto, specificando il rischio garantito, declinato nella sua duplice componente temporale di insorgenza della condotta dannosa e della richiesta del danneggiato.

Così affermata la non aprioristica invalidità delle clausole claims made, le Sezioni Unite concentrano il relativo giudizio di ammissibilità sul vaglio di meritevolezza del contratto in cui tali clausole vengono inserite. A tal proposito, le due pronunce adottano prospettive differenti. In un primo momento, le Sezioni Unite, nella pronuncia del 2016, inquadravano il contratto assicurativo contenente le clausole “a richiesta fatta” in un contratto atipico, derogatorio rispetto al modello di cui all’art. 1917 c.c., imponendo al giudice di merito il giudizio di meritevolezza richiesto per i contratti non appartenenti ai tipi previsti dalla legge, i quali devono perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Successivamente, nella recente pronuncia del 2018, la Suprema Corte ha superato il precedente orientamento, inquadrando il contratto in questione in una deroga convenzionale alla disciplina del modello di assicurazione della responsabilità civile, tuttavia di per sé non idonea a collocare il contratto al di fuori dello schema tipico di cui all’art. 1917 c.c. Di talché, a parere della Corte, il giudizio di meritevolezza deve comunque essere svolto dal giudice, ma in una prospettiva differente rispetto a prima, alla luce della causa concreta del contratto tipico.

Occorre, pertanto, svolgere un’indagine a più ampio spettro, che tenga conto non solo del momento genetico del contratto, ma che si estenda anche al suo contenuto e alla fase attuativa, con la conseguenza che la tutela invocabile dal contraente può investire tutti i profili implicati. Così, esemplificando, essa potrà coinvolgere la responsabilità risarcitoria precontrattuale, anche in caso di conclusione del contratto a conseguenze svantaggiose, la nullità, anche parziale, del contratto, per carenza della causa in concreto, nonché la conformazione in caso di clausola abusiva.

Risalta, in particolare, nella pronuncia della Corte, il potere di indagine conferito al giudice di merito, da esercitarsi alla luce della causa concreta, che consente allo stesso anche di intervenire sul contenuto del contratto, laddove emerga uno squilibrio giuridico tale da rendere il contratto inidoneo rispetto allo scopo in concreto perseguito dalle parti. Ciò tenendo anche in considerazione interessi superiori di ordine pubblico, quali la tutela dei terzi, connaturati alla funzione sociale del contratto si assicurazione.

Incidente stradale e il risarcimento del trasportato

Incidente stradale: il risarcimento del trasportato

L’art. 141 codice delle assicurazioni dispone che il terzo danneggiato a seguito di un sinistro, nel quale egli risulti trasportato, ha diritto al risarcimento del danno in via diretta da parte dell’assicurazione del conducente, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, salva l’ipotesi del caso fortuito.

La norma in esame, di derivazione comunitaria, fa emergere lo spirito solidaristico di tutela sociale che sta alla base delle maggiori garanzie che si intende accordare al terzo trasportato, esonerando lo stesso dalla prova dell’effettiva responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti. Il rischio di causa viene, quindi, traslato dal soggetto trasportato alla compagnia assicuratrice, conferendo principale tutela all’interesse del primo, che prevale su qualsivoglia questione inerente all’accertamento della responsabilità civile, con esclusione del solo caso fortuito.

Al terzo danneggiato viene, così, accordato uno strumento di tutela aggiuntivo, al fine di conseguire il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa assicuratrice, a prescindere dall’effettiva distribuzione della responsabilità. In tale ottica, il terzo dovrà provare esclusivamente il danno riportato e la sussistenza del nesso causale tra lo stesso e il sinistro, risultando esonerato dalla prova dell’effettiva dinamica dell’incidente e conseguente ripartizione di responsabilità tra i conducenti dei veicoli coinvolti (ex multis, Cass. sent. n. 16181/2015).

Resta salva l’ipotesi del caso fortuito, individuato dalla norma quale unica ipotesi di esclusione del diritto a risarcimento in capo al terzo. Nella nozione di caso fortuito, per orientamento maggioritario, la giurisprudenza di legittimità include, accanto agli eventi di origine naturale che sfuggono al controllo umano, anche il comportamento del danneggiato o di un terzo, la cui autonomia e imprevedibilità può elidere il nesso causale con gli avvenimenti precedenti (ex multis Cass. Sez. III, ord. 2477/2018, Cass. sent. n. 25837/2017). Deve, tuttavia, trattarsi di un comportamento imprevedibile ed eccezionale, che non rientri nel normale sviluppo causale, così da divenire autonoma causa del sinistro.

La ratio garantista sottesa all’art. 141 c.d.a. si evince anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in tema di direttive sull’assicurazione della responsabilità civile derivante da circolazione dei veicoli, in cui la Corte afferma che la disciplina di diritto interno deve essere interpretata dando prevalenza alla qualità di vittima avente diritto al risarcimento su quella dell’assicurato-responsabile, cosicché il terzo trasportato abbia un incondizionato diritto al risarcimento del danno alla persona causato dalla circolazione.

L’interpretazione garantista nei confronti del terzo trasportato risulta maggioritaria anche nell’ambito della giurisprudenza di legittimità e di recente avvalorata nella sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 1279/2019. In tale pronuncia, la Suprema Corte dichiara non rilevanti, ai fini del soddisfacimento del diritto risarcitorio del terzo, gli “aspetti puramente interni alla convenzione assicurativa, che riguarda l’assicurazione del trasportato o del responsabile civile, trasferendo sull’assicurazione del trasportante il rischio inerente a irregolarità o invalidità dell’assicurazione”. La Corte prosegue, poi, affermando che l’orientamento interpretativo accolto dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte di Giustizia ha un’indubbia matrice costituzionale, volta a conferire al terzo un’adeguata e paritaria tutela in ogni situazione, evitando l’effetto discriminatorio che altrimenti si produrrebbe in capo al terzo trasportato a seconda della situazione in cui di volta in volta versi l’assicurazione del responsabile civile. La stessa non è neppure equiparabile al caso fortuito, “il quale prevede per il terzo il solo accollo del rischio non assicurabile perché imputabile al cd. “act of God””.

A conferma dell’indifferenza dell’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro rispetto al diritto al risarcimento del terzo, la Corte, nella medesima pronuncia, afferma che la capacità di testimoniare nel giudizio inerente il risarcimento del terzo danneggiato delle parti coinvolte nel sinistro va valutato caso per caso, sotto il profilo della sussistenza di un interesse attuale e concreto, e non ipotetico e astratto. L’interesse del terzo deve essere comparato con l’interesse delle parti a contrastare o favorire l’azione del primo e non con il loro personale interesse, del tutto secondario, ad accertare la dinamica dell’incidente e ad individuarne il responsabile, “essendo questi ultimi fatti del tutto indifferenti per il terzo danneggiato, titolare di un diritto ad essere risarcito del danno subito a prescindere dalla eventuale responsabilità dell’uno o dell’altro conducente”.

Un orientamento differente è stato, tuttavia, accolto dalla Corte di Cassazione, a distanza di appena un mese dalla pronuncia sopra analizzata, nella sentenza della Terza Sezione n. 4147/19. La Suprema Corte, invero, elabora un ragionamento differente nell’analizzare i presupposti e i limiti della tutela del terzo trasportato, incentrando, in particolare, il giudizio sulla nozione di caso fortuito richiamata nell’incipit dell’art. 141 c.d.a. Quest’ultimo, a parere della Corte, fungerebbe da criterio dirimente nel bilanciamento degli interessi coinvolti e, solo una volta accertata la sua esclusione, si dovrebbe procedere al risarcimento del danno a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti coinvolti.

La nozione di caso fortuito viene, quindi, interpretata nel senso di causazione del sinistro del tutto esterna al vettore, includendovi anche l’esclusiva responsabilità dell’altro conducente. Così interpretato, il criterio in esame determinerebbe due effetti: l’uno, sostanziale, per cui la responsabilità dell’assicuratore del vettore non sussiste se causa del sinistro non è la condotta dell’assicurato, cioè del vettore; l’altro, processuale, di addossare all’assicuratore l’onere probatorio di ricostruzione della vicenda sotto il profilo causale, dimostrando l’eventuale responsabilità esclusiva dell’altro conducente. Secondo la Corte, il successivo inciso della norma che prevede il diritto al risarcimento a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti coinvolti dovrebbe coordinarsi con la prima parte della norma stessa e, dunque, letto nel senso che “se l’assicuratore del vettore non adempie all’onere impostogli dalla regola del caso fortuito di provare la totale derivazione dell’evento dannoso da questo, il processo non deve ulteriormente essere speso sul profilo della responsabilità”. In conseguenza, nell’accezione di caso fortuito adottata dalla Corte, l’art. 141 c.d.a. richiede che il vettore sia almeno corresponsabile del sinistro quale presupposto della condanna risarcitoria del suo assicuratore.

Per ulteriori approfondimenti su come comportarsi in caso di incidente stradale è possibile consultare sul sito il video e l’area tematica dedicati all’infortunistica stradale.

Il comodato della casa familiare

Il comodato della casa familiare

Accade frequentemente che l’immobile utilizzato dalla coppia come abitazione familiare sia stato concesso in comodato gratuito dai genitori di uno dei due partner.

Il comodato è un contratto tipico, essenzialmente gratuito, previsto dal Legislatore agli artt. 1803 e seguenti del codice civile, con cui “una parte (il comodante) consegna ad un’altra (il comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”.

Dottrina e giurisprudenza, sulla base delle norme codicistiche che disciplinano la restituzione del bene concesso in comodato, hanno individuato tre tipologie di comodato:

1. il comodato cd. “a termine”, ovvero quella fattispecie in cui, ai sensi dell’art. 1809, comma 1, c.c., la restituzione del bene da parte del comodatario deve avvenire alla scadenza del contratto;

2. il comodato che, sebbene non sia stato previsto un termine determinato, è stato concesso per un fine/uso determinato, espressamente pattuito o desumibile dal contratto stesso (ad esempio per le esigenze della famiglia). In tal caso la restituzione del bene deve avvenire al termine dell’uso convenuto;

3. il comodato cd. “precario”, ovvero quella fattispecie in cui non è stato pattuito alcun termine di durata né è possibile desumere dal contratto l’uso convenuto. In tal caso, ai sensi dell’art. 1810 c.c., la restituzione deve avvenire non appena il comodante ne faccia richiesta.Va, comunque, ricordato che, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c., anche prima della scadenza del termine ovvero prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa sulla base dell’uso convenuto, il comodante potrà richiedere la restituzione del bene, qualora allo stesso sopraggiunga un bisogno “urgente ed impreveduto.

In tutte le ipotesi, quindi, in cui un immobile venga, senza previsione di un termine, concesso in comodato ad un figlio affinché vi abiti con il proprio nucleo familiare, per determinare il momento in cui il proprietario potrà pretendere la restituzione del bene, occorrerà valutare se dal contratto sia desumibile o meno l’intento del comodante di concedere l’immobile al comodatario affinché soddisfi le proprie esigenze familiari, adibendolo a propria abitazione familiare.
In tal caso, invero, la restituzione potrà avvenire solo quando siano cessate le esigenze familiari del comodatario.

L’ipotesi, certamente, più problematica è rappresentata da quelle fattispecie di comodato cd. “precario”, in cui, oltre a non essere stabilito alcun termine, non è stato neppure convenuto alcun uso preciso.
In tema di comodato, la giurisprudenza è stata, invero, chiamata ad esprimersi sulla possibilità per il proprietario (solitamente il genitore di uno dei partner) di richiedere la restituzione del bene, allo sciogliersi della relazione sentimentale, quando la propria abitazione venga assegnata, in sede di separazione o divorzio, non al proprio parente ma all’altro coniuge.

I Giudici hanno, in questi casi, ritenuto che, laddove il comodatario riesca a provare che il contratto non era precario ma concesso per le esigenze della famiglia, il vincolo sul bene non possa risolversi a richiesta del comodante, ma solo al venir meno delle esigenze familiari (così ex multis Cass. Civ., Sez. Un., sentenza n. 20448/2014).

Infatti come ribadito da Cass. Civ., 2/02/2017, sentenza n. 2771, nel caso manchi espressamente un termine di durata, la scadenza contrattuale può evincersi per relationem dalla destinazione a casa familiare, con la conseguenza che il comodante, al di fuori di un bisogno imprevisto ed urgente, non possa richiedere la restituzione del bene, finché perduri la destinazione del bene a casa familiare.

E’, però, necessario che sussista in capo al soggetto che pretende di abitare l’immobile, dopo lo scioglimento del legame sentimentale, un provvedimento giudiziale che preveda espressamente l’assegnazione dell’immobile allo stesso.

Amministrazione di sostegno e testamento biologico

Amministrazione di sostegno e testamento biologico

Nel nostro precedente contributo, ci si è occupati dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno, analizzando il forte impatto che un tale strumento ha avuto nell’ambito della tutela dei soggetti bisognosi. In particolare, attraverso la Legge n. 6/2004, il legislatore ha introdotto, senza sostituire i precedenti strumenti dell’interdizione e dell’inabilitazione, una nuova forma di tutela, focalizzata sulla protezione degli interessi del soggetto beneficiario, idonea a garantire l’elasticità e la flessibilità necessarie ad assicurare la massima esplicazione di tale finalità.

In questo quadro generale, l’istituto dell’amministrazione di sostegno ha rivestito un ruolo di peculiare rilievo nella valorizzazione delle cd. Disposizioni Anticipate di Trattamento (D.A.T.), atti nei quali il soggetto manifesta le proprie volontà in relazione alle conseguenze di una malattia, attuale o futura, che conduca a determinate conseguenze, in prospettiva di trovarsi nelle condizioni di non poter compiere tali scelte al momento necessario, per sopravvenuta incapacità di intendere e volere.

Prima di analizzare il ruolo centrale dell’amministrazione di sostegno nell’ambito del cd. testamento biologico, occorre una breve premessa di inquadramento della questione.

Le disposizioni in ordine ai trattamenti sanitari sono libere, consapevoli e disponibili, rinvenendosi negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, nonché negli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il diritto di ogni individuo all’autodeterminazione terapeutica. In particolare, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato del soggetto destinatario, ad eccezione dei casi previsti dalla legge. Questi ultimi devono consistere, in ogni caso, in trattamenti obbligatori espressamente e tassativamente previsti, nell’interesse della salute del beneficiario o della collettività e non possono mai travalicare i limiti della dignità umana (art. 1 l. 219/2017).

Prima dell’intervento della norma di riforma, giurisprudenza e dottrina si sono divise in merito alla possibilità per il malato di rifiutare trattamenti terapeutici salvifici, in assenza dei quali lo stesso sarebbe andato incontro al fine vita.

Taluno, invero, sosteneva che il diritto a rifiutare le cure non potesse spingersi sino al rifiuto di trattamenti salvifici, in quanto la disponibilità del diritto alla salute e del diritto a curarsi non poteva trasformarsi in diritto a “lasciarsi morire”. Pertanto, la disponibilità del consenso alle cure mediche, secondo tale orientamento, rinveniva un limite nel diritto alla vita, diritto fondamentale ed indisponibile. Secondo altri, al contrario, il limite della dignità umana fissato dall’art. 32 Cost. avrebbe dovuto interpretarsi nel senso di garantire a ciascuno il diritto di condurre un’esistenza libera e dignitosa, il che comprenderebbe al suo interno il diritto di rifiutare cure mediche salvifiche, che tuttavia garantiscono il mero sostentamento e la mera permanenza in vita in condizioni da non tutti accettate come dignitose.

Nella risoluzione del dibattito, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza e dal legislatore in seguito, il quale ha per gran parte recepito l’orientamento già delineatosi in seno alla prima.

In particolare, nei casi Welby ed Englaro, la giurisprudenza è giunta ad ammettere la possibilità per il malato di esprimere un “dissenso informato”, ossia il rifiuto alle cure mediche anche laddove quest’ultimo conduca al fine vita. Il dissenso espresso nei confronti di trattamenti salvifici, tuttavia, non deve essere confuso con l’eutanasia, tutt’oggi vietata dall’ordinamento.

Nel caso Englaro, nella specie, la giurisprudenza si è dovuta confrontare con l’ulteriore problema della capacità dei rappresentanti del soggetto incapace di esprimere, nell’interesse di quest’ultimo, il consenso o il dissenso alle cure mediche, a fronte dell’incapacità da parte dello stesso di provvedere in tal senso. In particolare, ci si è chiesti se il beneficiario di amministrazione di sostegno possa essere sostituito dall’amministratore nelle scelte che risultino espressione di “atti personalissimi”, tra i quali ritenere inclusi anche gli atti di assenso o dissenso rispetto alle cure mediche. L’orientamento costante nella dottrina e nella giurisprudenza afferma, invero, che tali atti, essendo riconducibili alla sfera più intima ed individuale dell’uomo, non sono suscettibili di rappresentanza. Sicché, l’amministratore di sostegno non potrebbe sostituirsi al beneficiario, incapace di intendere e volere, nell’esprimere determinate scelte il luogo di quest’ultimo.

Tuttavia, tale presa di posizione con riguardo a taluni diritti fondamentali della persona, se, da un lato, tutela il beneficiario da illegittime intrusioni nella propria sfera più intima, dall’altro, non ammettendosi rappresentanza, finisce per limitare la stessa capacità giuridica dell’individuo, rendendo di fatto taluni diritti non esercitabili, pur rivestendo gli stessi primaria rilevanza.

Per tale ragione, la Cassazione, nel richiamato caso Englaro (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748), ha introdotto una distinzione tra rappresentanza come sostituzione del soggetto incapace e rappresentanza come espressione della volontà del soggetto stesso. Il rappresentante, pertanto, dovrebbe costituire un nuncius delle volontà del rappresentato, esprimendo determinate scelte mediante “la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato”. La Cassazione procede, poi, ad una rigorosa individuazione dei presupposti in presenza dei quali il rappresentante può esprimere, ed il giudice accogliere, determinate scelte.

L’orientamento si qui illustrato della Corte di legittimità risulta, ad oggi, recepito dal legislatore, intervenuto sul tema con la Legge 219/2017.

In primo luogo, all’art. 1 commi 5 e 6, la norma dispone che “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso […]. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. […]. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”. Il legislatore, ha pertanto, fatto proprio l’orientamento secondo cui il dissenso informato può includere anche il rifiuto di cure salvifiche.

Inoltre, quanto al ruolo ricoperto dall’amministratore di sostegno, la norma ha previsto che “Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere” (art. 3 co. 4).

Infine, l’ulteriore passo avanti compiuto dalla novella attiene alla possibilità per soggetto di disporre, ora per allora, in previsione di una futura, eventuale incapacità di autodeterminarsi, in ordine alle proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, attraverso le D.A.T. Queste ultime, in particolare, prevedono la nomina di un fiduciario, un soggetto incaricato di far valere i rispettare le scelte compiute dal soggetto quando ancora capace di intendere e volere, le quali risultano vincolanti per il medico, ad eccezione dei casi espressamente previsti.

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare sul sito la pagina dedicata all’istituto dell’Amministrazione di Sostegno e quella sulla tutela del beneficiario.