Tag Archivio per: Separazione

Cosa significa negoziazione assistita?

In questo intervento approfondiamo il tema della negoziazione assistita, che è una procedura, recentemente introdotta, che consente di risolvere una lite senza andare in Tribunale.

Le parti infatti, con l’assistenza obbligatoria di un difensore ciascuna, negoziano fino ad arrivare ad un accordo.

Nel commento video vengono quindi approfondite le particolarità ed i vantaggi di tale procedura, utilizzabile anche nei casi di crisi della famiglia.

Per ulteriori approfondimenti è possibile consulatare la pagina sul significato di Negoziazione Assistita.

Qual è la differenza tra separazione giudiziale e separazione consensuale?

Con questo commento video cerchiamo di dare risposta ad alcune delle domande più frequenti che ci vengono rivolte in caso di crisi della famiglia.

Sicuramente uno dei dubbi maggiormente ricorrenti riguarda le differenze tra separazione (o divorzio) giudiziale e separazione (o divorzio) consensuale.

In questo intervento, dopo aver chiarito in cosa consistono tali differenze e le caratteristiche delle due diverse procedure, vengono approfondite anche le tempistiche per ottenere la separazione ed il divorzio.

Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati è possibile consultare le pagine dedicate a Separazione e Divorzio ed alle differenze tra separazione consensuale e giudiziale.

Separarsi con la Negoziazione Assistita

Il D.L. n. 132 del 2014, convertito con modificazione dalla Legge 10/11/2014 n. 162, ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento di soluzione consensuale dei conflitti familiari alternativo alla procedura avanti al Tribunale: la negoziazione assistita.

Il procedimento di negoziazione assistita consente invero ai coniugi di separarsi, divorziare o modificare le condizioni della separazione o del divorzio, in via negoziale, senza alcun deposito o udienza davanti al Giudice.

E’, comunque, obbligatoria l’assistenza di almeno un Avvocato per coniuge, così da garantire anche in fase negoziale il rispetto dei diritti delle parti.

Il procedimento di negoziazione assistita si svolge attraverso una doppia fase negoziale, che si articola, dapprima, nella sottoscrizione di una convenzione di negoziazione assistita, con cui le parti definiscono le modalità di svolgimento della negoziazione, e, successivamente, nella sottoscrizione dell’accordo di separazione o di divorzio.

Tale accordo dovrà poi essere depositato presso la Procura della Repubblica, al fine di ottenere da parte del P.M. l’autorizzazione in caso di figli minori o non autosufficienti, o il nulla osta negli altri casi. Successivamente l’accordo sarà trasmesso all’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è stato contratto il matrimonio per l’annotazione negli appositi Registri.

I coniugi possono ricorrere alla negoziazione anche in presenza di figli, minori, disabili, o non economicamente autosufficienti.
In tal caso, il Pubblico Ministero autorizzerà l’accordo solo dopo aver valutato la rispondenza dello stesso all’interesse dei figli.

In sede di negoziazione assistita i coniugi, oltre a disporre dell’eventuale mantenimento del coniuge e/o dei figli, potranno anche raggiungere accordi che comportino trasferimenti immobiliari.

L’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita ha la stessa efficacia dei provvedimenti del Tribunale ed HA IL VANTAGGIO DI UNA MAGGIORE RAPIDITA’ non dovendo recarsi in Tribunale!!

Per tutta la durata del procedimento le parti devono cooperare in buona fede e con lealtà al fine di risolvere bonariamente il conflitto coniugale.

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare nel sito il video dedicato alla negoziazione assistita.

Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?

Quale legge si applica alla separazione e al divorzio che presentano elementi di internazionalità?

Il Giudice, chiamato a pronunciarsi sul divorzio di coniugi extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, quale legge deve applicare allo scioglimento del matrimonio? Ed, in particolare, è possibile per il Giudice italiano applicare la legge di uno Stato diverso?

Tali interrogativi possono avere risvolti pratici molto significativi.
Si pensi, ad esempio, alla possibilità di applicare la legge di uno Stato che riconosce, al contrario del nostro ordinamento, il divorzio immediato, senza alcun preventivo periodo di separazione.

In Italia, la normativa di riferimento in materia di legge applicabile alla separazione e al divorzio che presentano elementi di estraneità è costituita dal Regolamento UE 1259/2010, cd. Roma III relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale”.

Tale Regolamento, che nasce con l’obiettivo di uniformare la disciplina dei singoli Stati partecipanti, attribuisce particolare rilievo all’autonomia ed alla volontà dei coniugi nella determinazione della legge applicabile al loro divorzio.

Il criterio di elezione per stabilire quale legge applicare al divorzio è infatti rappresentato dalla “scelta della parti”.
L’art. 5 del Regolamento Roma III stabilisce, invero, che i coniugi possono designare di comune accordo la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, purché si tratti:
a) della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi (sulla nozione di “residenza abituale “, cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?”) al momento della conclusione dell’accordo, o
b) della legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi se uno di essi vi risiede ancora al momento della conclusione dell’accordo, o
c) della legge dello Stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo, o
d) della legge del foro (ovvero della legge dello Stato di cui cui viene adita l’autorità giurisdizionale).

Nell’ambito di tale elenco, tassativamente predeterminato dal Regolamento, le parti hanno quindi la possibilità di accordarsi sulla legge che verrà applicata al loro divorzio, prediligendo quella che meglio si adatta alle loro esigenze.

E’, quindi, di primaria importanza che i coniugi, al momento della scelta della legge applicabile al loro divorzio, siano correttamente informati dal loro difensore sugli aspetti essenziali delle diverse leggi nazionali applicabili al caso specifico, al fine di poter operare al meglio una scelta consapevole ed informata, a tutela dei propri interessi e nel rispetto della normativa vigente.

Le disposizioni di cui al richiamato Regolamento hanno peraltro carattere universale, ovvero, non solo si applicano a prescindere dalla nazionalità dei coniugi, ma consentono agli stessi di poter indicare anche la legge di uno Stato non appartenente all’Unione Europea o non aderente al Regolamento, purché nell’ambito del tassativo elenco sopra specificato.

Ad esempio, il Tribunale di Padova, con sentenza del 8/09/2017, a fronte della domanda congiunta di divorzio promossa da due coniugi marocchini, ha ritenuto, sulla base dell’accordo raggiunto dalle parti, di poter applicare al caso concreto la legge del Marocco.
Ciò, ha consentito ai coniugi di poter ottenere il divorzio immediato, previsto dalla legislazione marocchina, senza alcuna preventiva separazione.

Infatti, come ormai pacificamente sancito dalla giurisprudenza anche in materia di riconoscimento delle sentenze straniere di divorzio, la circostanza che il nostro ordinamento imponga la preventiva pronuncia della separazione, non osta all’applicazione della disposizione straniera che preveda il divorzio immediato.
La concessione, in tali casi, del divorzio immediato non contrasta invero con alcun principio di ordine pubblico, purché il Giudice compia un rigoroso accertamento, nel rispetto del diritto di difesa delle parti, sull’esistenza di un irrimediabile disfacimento della comunione di vita e di affetti tra i coniugi (così ex multis Cass. Civ. 25/07/2006, n. 16978 e Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).

Così, ad esempio, il Tribunale di Parma, nel caso di due coniugi, l’uno di nazionalità italiana l’altro spagnola, che avevano designato la legge spagnola quale legge applicabile al rapporto, ha pronunciato, ai sensi del Codice Civile spagnolo, il divorzio, senza preventiva separazione (così Tribunale di Parma, sentenza 9/06/2014).
Ed ancora, il Tribunale di Belluno, nel caso di due cittadini albanesi, coniugati in Albania ma stabilmente residenti in Italia, come concordemente richiesto dalle parti, ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio secondo la legge albanese, che consente, su base consensuale, la pronuncia immediata di divorzio (così Tribunale di Belluno, sentenza 27/10/2016).

Occorre, però, precisare in che termini e con quale forma debba essere espressa la scelta della legge applicabile.

Per quanto riguarda il termine, l’art. 5 del Regolamento Roma III prevede che l’accordo con cui i coniugi designano la legge applicabile al loro divorzio possa essere concluso e modificato in qualsiasi momento, ma al più tardi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale, salvo che la legge del foro stabilisca che i coniugi possono formulare tale designazione anche nel corso del procedimento avanti al giudice.

Sul punto la nostra giurisprudenza ha chiarito che, oltre agli accordi intervenuti prima della domanda giudiziale, sono ritenuti validi anche gli accordi effettuati in corso di causa, ed in particolare fino al momento in cui è possibile per le parti integrare le proprie domande, ovvero fino alle memorie integrative di cui all’art. 709 c.p.c., comma 3 c.p.c., e di cui art. 4, comma 10, della legge sul divorzio (così Tribunale di Milano 10/02/2014 e Tribunale di Belluno 27/10/2016).

Con riferimento, invece, ai requisiti di forma, l’art. 7 del Regolamento Roma III stabilisce che è sufficiente che l’accordo delle parti sia redatto per iscritto, datato e firmato da entrambi i coniugi, salvo che la legge dello Stato membro non preveda requisiti di forma supplementari per tali accordi.

A tal proposito, l’ordinamento italiano non prevede ulteriori requisiti di forma rispetto alla forma scritta. Ed infatti sono state ritenute valide anche le semplici scritture private, senza necessaria trascrizione in atto pubblico, e gli accordi raggiunti anche non contestualmente o raccolti in documenti separati.

Cosa succede, però, quando i coniugi non effettuano alcuna valida scelta sulla legge applicabile, perché, ad esempio, sono in disaccordo sulla legge da designare o perché uno dei due è rimasto contumace?

In tali circostanze è l’art. 8 del Regolamento Roma III a stabilire una serie di criteri, con un preciso ordine gerarchico, volti ad individuare la legge applicabile alla separazione e al divorzio.

In particolare, in mancanza di una scelta operata dalle parti, il divorzio e la separazione sono disciplinati:
a) dalla legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi nel momento in cui è adita l’autorità giudiziaria, o in mancanza
b) dalla legge dello Stato dell’ultima residenza abituale dei coniugi, sempre che tale periodo non si sia concluso più di un anno prima che fosse adita l’autorità giurisdizionale, se uno dei coniugi vi risiede ancora nel momento in cui viene adita l’autorità giurisdizionale, o in mancanza
c) dalla legge dello Stato di cui i coniugi sono cittadini nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale (legge di comune cittadinanza dei coniugi), o in mancanza
d) dalla legge dello Stato in cui è adita l’autorità giurisdizionale (lex fori).

Nel caso di una coppia di coniugi stranieri, entrambi residenti in Italia, troverà, quindi, applicazione la legge italiana.

Sul punto, ad esempio, il Tribunale di Mantova, chiamato a pronunciarsi sul ricorso per lo scioglimento del matrimonio, promosso da una cittadina cinese contro il coniuge di medesima nazionalità rimasto contumace, ha senza dubbio stabilito la piena applicabilità della normativa italiana, in virtù di quanto previsto dal Regolamento UE n. 1259/2010 (così Tribunale di Mantova, sentenza 24/02/2016).

Per ulteriori approfondimenti sul tema è possibile consultare la pagina dedicata a Separazione e Divorzio.

Divorzio tra stranieri, qual è il Giudice competente?

Nella società attuale è frequente che a dissolversi siano matrimoni che presentano elementi di internazionalità, ovvero famiglie in cui uno od entrambi i coniugi sono cittadini extracomunitari o con cittadinanze tra loro diverse, oppure famiglie composte da cittadini italiani ma residenti all’Estero, oppure ancora matrimoni contratti in Paesi esteri.

Per affrontare correttamente la separazione ed il divorzio di tali unioni, il giurista deve porsi due domande preliminari: l’una relativa alla legge applicabile al caso concreto (cfr. l’approfondimento “Divorzio tra stranieri: qual è la legge applicabile?”), e l’altra relativa alla giurisdizione, ovvero se il giudice italiano abbia la competenza giurisdizionale a decidere sulla dissoluzione di tale nucleo familiare.

Ogni vertenza familiare comporta, poi, una molteplicità di domande che affiancano quella di separazione o di divorzio, come le questioni attinenti alla prole, al mantenimento del coniuge o all’addebito della separazione.
Ebbene, in materia di giurisdizione, tali domande, seppur presentate congiuntamente e scaturenti da una medesima situazione di fatto, devono essere esaminate separatamente, in quanto ognuno dei predetti aspetti soggiace ad una diversa disciplina legislativa.

In materia di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio, la giurisdizione viene determinata sulla base dell’art. 3 del Regolamento CE n. 2201/2003, c.d. Bruxelles II bis, le cui disposizioni trovano applicazione indipendentemente dalla cittadinanza europea delle parti e prevalgono sulle norme di diritto internazionale privato (così, sul punto, sentenza Corte di Giustizia Europea 29/11/2007 caso Sundelind Lopez).
Invero, solo laddove il caso concreto non trovi un collegamento con alcuno dei criteri individuati dal predetto Regolamento, potrà farsi richiamo alla legge sul diritto internazionale privato (Legge 218/1995).

Ai fini dell’individuazione della giurisdizione, l’Art. 3 del predetto Regolamento prevede una serie di criteri, tra loro alternativi, sostanzialmente vertenti sul concetto di “residenza abituale”.

Vi sarà, quindi, competenza del giudice italiano, oltre che per i coniugi con cittadinanza italiana (art. 3, comma 1, lett. b Reg. CE 2201/2003), anche nel caso di soggetti di cittadinanza diversa se in territorio italiano si trova la residenza abituale dei coniugi oppure l’ultima residenza abituale dei coniugi, se uno di essi vi risiede ancora, oppure la residenza abituale del convenuto oppure, in caso di domanda congiunta, la residenza abituale di uno dei due coniugi oppure la residenza abituale dell’attore, se vi ha risieduto per un anno immediatamente prima della domanda o sei mesi, nel caso in cui l’attore sia anche cittadino italiano (art. 3, comma 1, lett. a) Reg. CE 2201/2003).

Anche l’art. 8 del sopra citato Regolamento, che regola la competenza a decidere sulle questioni relative a responsabilità genitoriale ed affidamento della prole verte essenzialmente sul concetto di “residenza abituale”, ma questa volta con esclusivo riferimento al minore.
Quindi, tutte le questioni relative ad un minore abitualmente residente in Italia dovranno essere decise dal giudice italiano.

Con riferimento all’eventuale richiesta di addebito della separazione, occorre precisare che, mentre l’orientamento maggioritario, ritenendo la richiesta di addebito inscindibile ed accessoria alla pronuncia di separazione, ne concentra la giurisdizione in capo al medesimo giudice competente in virtù del Regolamento Bruxelles II bis (così Tribunale di Roma 5/06/2015 e Tribunale di Belluno 13/06/2017), altra parte della giurisprudenza ritiene tale domanda estranea all’ambito di applicazione del predetto provvedimento e riconducibile invece, per quanto attiene la determinazione della giurisdizione, all’alveo del Regolamento UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (così Tribunale di Tivoli).

Per quanto riguarda, infine, le obbligazioni alimentari o di mantenimento, sia del coniuge che dei figli, ai fini della determinazione del giudice competente assume rilievo il Regolamento CE n. 4/2009, che come il Bruxelles II bis, trova applicazione anche alle ipotesi di soggetti extracomunitari e prevale sulle norme di diritto internazionale privato.

In particolare l’art. 3 del predetto Regolamento, che disciplina la competenza generale, stabilisce al comma 1, lettere a) e b) due criteri alternativi di giurisdizione, relativi rispettivamente al luogo di “residenza abituale” del convenuto ed al luogo di “residenza abituale” del creditore, oppure alle successive lettere c) e d) del medesimo comma prevede un criterio di concentrazione della giurisdizione, qualora la causa di mantenimento risulti accessoria rispetto ad una causa sullo stato delle persone o ad un procedimento relativo alla responsabilità genitoriale.

In sintesi, su tali questioni, vi sarà competenza del giudice italiano, quando la domanda di mantenimento risulti accessoria ad una domanda di separazione, divorzio o di affido di minore pendente avanti al medesimo giudice, ovvero quando siano situate sul territorio italiano la residenza abituale del debitore o del creditore.

Vista la rilevanza attribuita dalla normativa sopra richiamata al concetto di “residenza abituale”, può essere utile, in conclusione, ricostruire come la giurisprudenza italiana abbia interpretato tale nozione, sulla base del diritto internazionale e dell’Unione Europea.

A tal proposito la Corte di Cassazione ha chiarito che per “residenza abituale” dei coniugi non si fa riferimento al dato della residenza anagrafica o formale ma al luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa (cosi Cass. Civ., Sezioni Unite, 17/02/2010, n. 6380), e per “residenza abituale” del minore deve intendersi, a prescindere dalla residenza anagrafica, “il luogo in cui il minore trova e riconosce, anche grazie ad una permanenza tendenzialmente stabile, il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, originati dallo svolgersi della sua vita di relazione” (così Cass. Civ., Sezioni Unite, 30/03/2018, n. 8042).

Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare la pagina del sito dedicata a Separazione e Divorzio.

Il comodato della casa familiare

Il comodato della casa familiare

Accade frequentemente che l’immobile utilizzato dalla coppia come abitazione familiare sia stato concesso in comodato gratuito dai genitori di uno dei due partner.

Il comodato è un contratto tipico, essenzialmente gratuito, previsto dal Legislatore agli artt. 1803 e seguenti del codice civile, con cui “una parte (il comodante) consegna ad un’altra (il comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”.

Dottrina e giurisprudenza, sulla base delle norme codicistiche che disciplinano la restituzione del bene concesso in comodato, hanno individuato tre tipologie di comodato:

1. il comodato cd. “a termine”, ovvero quella fattispecie in cui, ai sensi dell’art. 1809, comma 1, c.c., la restituzione del bene da parte del comodatario deve avvenire alla scadenza del contratto;

2. il comodato che, sebbene non sia stato previsto un termine determinato, è stato concesso per un fine/uso determinato, espressamente pattuito o desumibile dal contratto stesso (ad esempio per le esigenze della famiglia). In tal caso la restituzione del bene deve avvenire al termine dell’uso convenuto;

3. il comodato cd. “precario”, ovvero quella fattispecie in cui non è stato pattuito alcun termine di durata né è possibile desumere dal contratto l’uso convenuto. In tal caso, ai sensi dell’art. 1810 c.c., la restituzione deve avvenire non appena il comodante ne faccia richiesta.Va, comunque, ricordato che, come previsto dall’art. 1809, comma 2, c.c., anche prima della scadenza del termine ovvero prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa sulla base dell’uso convenuto, il comodante potrà richiedere la restituzione del bene, qualora allo stesso sopraggiunga un bisogno “urgente ed impreveduto.

In tutte le ipotesi, quindi, in cui un immobile venga, senza previsione di un termine, concesso in comodato ad un figlio affinché vi abiti con il proprio nucleo familiare, per determinare il momento in cui il proprietario potrà pretendere la restituzione del bene, occorrerà valutare se dal contratto sia desumibile o meno l’intento del comodante di concedere l’immobile al comodatario affinché soddisfi le proprie esigenze familiari, adibendolo a propria abitazione familiare.
In tal caso, invero, la restituzione potrà avvenire solo quando siano cessate le esigenze familiari del comodatario.

L’ipotesi, certamente, più problematica è rappresentata da quelle fattispecie di comodato cd. “precario”, in cui, oltre a non essere stabilito alcun termine, non è stato neppure convenuto alcun uso preciso.
In tema di comodato, la giurisprudenza è stata, invero, chiamata ad esprimersi sulla possibilità per il proprietario (solitamente il genitore di uno dei partner) di richiedere la restituzione del bene, allo sciogliersi della relazione sentimentale, quando la propria abitazione venga assegnata, in sede di separazione o divorzio, non al proprio parente ma all’altro coniuge.

I Giudici hanno, in questi casi, ritenuto che, laddove il comodatario riesca a provare che il contratto non era precario ma concesso per le esigenze della famiglia, il vincolo sul bene non possa risolversi a richiesta del comodante, ma solo al venir meno delle esigenze familiari (così ex multis Cass. Civ., Sez. Un., sentenza n. 20448/2014).

Infatti come ribadito da Cass. Civ., 2/02/2017, sentenza n. 2771, nel caso manchi espressamente un termine di durata, la scadenza contrattuale può evincersi per relationem dalla destinazione a casa familiare, con la conseguenza che il comodante, al di fuori di un bisogno imprevisto ed urgente, non possa richiedere la restituzione del bene, finché perduri la destinazione del bene a casa familiare.

E’, però, necessario che sussista in capo al soggetto che pretende di abitare l’immobile, dopo lo scioglimento del legame sentimentale, un provvedimento giudiziale che preveda espressamente l’assegnazione dell’immobile allo stesso.

Il nuovo art. 570 bis c.p.

Il nuovo art. 570 bis c.p.

Il d.lgs. 21/2018, attuativo della riserva di codice, entrata in vigore il 6 aprile 2018, ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 570-bis c.p. intitolato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”. La nuova disposizione prevede che “Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”.

In adempimento al disposto di cui al nuovo art. 3-bis c.p., con cui il legislatore ha deciso di auto vincolarsi ad una disciplina maggiormente organica ed accessibile del diritto penale, l’articolo di nuova introduzione dovrebbe costituire trasposizione, all’interno del codice penale, della vecchia disposizione di cui all’art. 12–sexies l. 898/1970, il quale prevedeva l’estensione delle pene di cui all’art. 570 c.p. all’ipotesi di “inosservanza dell’obbligo di corresponsione dell’assegno” da parte del genitore divorziato.
Tuttavia, sin dalla sua introduzione, la disposizione di nuovo conio ha sollevato questioni interpretative di particolare complessità, una delle quali attinente all’applicabilità della stessa al genitore che ometta di adempiere agli obblighi economici imposti in favore di figli nati da coppia non coniugata.

Invero, prima della modifica legislativa, la giurisprudenza, attraverso un’opera ermeneutica ormai ampiamente condivisa, era giunta ad estendere l’applicabilità del precedente art. 12-sexies l. 898/1970 anche a tali fattispecie attraverso il seguente ragionamento: l’art. 4 co. 2 l. 54/2004, sull’affido condiviso, stabiliva l’estensione ai procedimento relativi a figli di genitori non coniugati delle disposizioni contenute nella medesima legge, pertanto, anche dell’art. 3 della stessa, il quale a sua volta sanziona la violazione degli obblighi di natura economica in ipotesi di separazione, rinviando all’art. 12-sexies legge sul divorzio.

Orbene, il recente intervento legislativo ha introdotto l’art. 570-bis c.p. ed ha, al contempo, abrogato l’art. 3 e l’art. 12-sexies menzionati. Tuttavia, la nuova disposizione non opera alcun riferimento ai genitori di figli nati da coppie non coniugate, richiamando esclusivamente la condotta tenuta dal “coniuge”.
Quid iuris in relazione alla violazione degli obblighi economici da parte del genitore di figli di coppie conviventi more uxorio?

La risposta più immediata e diffusa in giurisprudenza è stata quella di ritenere inapplicabile la nuova disposizione a tali ipotesi, pena la violazione del divieto di analogia in malam partem vigente in materia penale. In particolare, il tenore letterale dell’art. 570-bis c.p. non consentirebbe di ritenervi incluse le condotte in parola, conducendo ad una sostanziale abolitio criminis della norma in parte qua.

A fronte di tale interpretazione, ben due Giudici di merito, il Tribunale di Nocera inferiore e la Corte d’Appello di Trento, hanno sollevato due distinte questioni di legittimità costituzionale, pur invocando parametri costituzionali differenti.

In particolare, il Tribunale di Nocera inferiore si è trovato ad occuparsi di un caso in cui l’imputato, dopo quattro anni di convivenza, aveva abbandonato la casa familiare, interrompendo ogni rapporto con la compagna (con cui non era sposato) e i due figli minori e, successivamente, aveva omesso di pagare l’assegno mensile posto a suo carico dal Tribunale per i Minorenni. Il Giudice a quo esclude che il nuovo art. 570-bis c.p. possa applicarsi anche a tale fattispecie, esulando una tale operazione ermeneutica dai limiti dell’interpretazione consentita in sede penale. Sicché, ravvisando la violazione dell’art. 3 Cost., il giudice solleva questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 570-bis c.p., “nella parte in cui esclude dall’ambito di operatività della disciplina penale ivi prevista i figli di genitori non coniugati”.

Ancora, la Corte d’Appello di Trento, chiamata a pronunciarsi in relazione al fatto di un soggetto imputato dell’omesso versamento dei contributi a favore dei figli nati fuori dal matrimonio ex art. 12 sexies l. 898/70 oggi abrogato, ritiene che la nuova disposizione abbia determinato una riduzione dell’area penalmente rilevante, con conseguente parziale abolitio criminis delle relative condotte, oggi non più costituenti reato. Tuttavia, il Giudice a quo ravvisa in tale intervento di parziale abolitio la violazione degli artt. 25 e 77 Cost. segnatamente, la violazione del principio di riserva di legge per eccesso di delega da parte del legislatore delegato. Invero, è di comune interpretazione che la l. 103/2017 abbia autorizzato il Governo a un’opera di riordino della normativa penale in adempimento del nuovo art. 3- bis c.p., consentendo, dunque, esclusivamente una nuova collocazione delle precedenti fattispecie incriminatrici, prima previste da leggi speciali, all’intero del codice sostanziale. Nessuna abolitio era pertanto consentita al Governo. In tale parte, la nuova norma si pone in contrasto con la costituzione e, in particolare, con il principio di riserva di legge, da ritenersi, in materia penale, tendenzialmente assoluta.

Altra parte della giurisprudenza di merito ha tentato di fornire un’interpretazione adeguatrice del sistema normativo vigente, riconducendo la condotta del genitore che ometta il pagamento di assegni in favore di figli nati fuori dal matrimonio all’interno della disposizione di cui all’art. 570 c.p., opinando nel senso che la violazione degli obblighi di assistenza materiale nei confronti del figlio ben si può realizzare attraverso la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento fissato dal Tribunale civile (Trib. Treviso 2018, n. 554).

Infine, i Giudici di legittimità, chiamati ad occuparsi della questione, optano per un’interpretazione costituzionalmente orientata della nuova fattispecie, valorizzando l’intenzione del legislatore delegante e delegato al mero riordino della precedente disciplina, dalla quale non può ritenersi verificata, attraverso il meccanismo dell’abrogazione degli artt. 12-sexies l. 898/70 e 3 l. 54/2006, “un’abolizione delle corrispondenti figure di reato, transitate nel nuovo corpus normativo”. Infine, la Corte valorizza un’interpretazione sistematica della nuova norma la quale, interpretata secondo il solo senso letterale, si porrebbe in aperto contrasto con le norme di cui agli art. 337-bis e ss c.c. (Cass. sent. n. 55744/2018).